Luciano Giustini ragionamenti a lettere..

Le cose che non colsi (una retrospettiva)

“Il mio sogno è nutrito d’abbandono,

di rimpianto. Non amo che le rose
che non colsi.
Non amo che le cose
che potevano essere e non sono
state…
Vedo la case, ecco le rose
del bel giardino di vent’anni or sono!”

Guido Gozzano così riassumeva nella sua poesia. Si finisce per innamorarsi delle proprie nostalgie, dei ricordi che inevitabilmente ci portiamo dietro come un piccolo vuoto, una mancanza che crea pensiero.

Dicono che bisogna aspettare un evento della vita, come un passaggio, un momento importante, per effettuare quel viaggio all’indietro che consente di togliersi il pensiero della nostalgia. Per me il pensiero alle mie ricerche, ai miei sbagli, alle volte che sono caduto e mi sono rialzato è come un sottofondo costante, che a volte racconto, a volte no..

Non colsi ad esempio quella volta che c’era una ragazza “giusta”. Questo sta in cima alla lista perché più passano gli anni più il ricordo si fa pensiero, certezza, constatazione, infine di nuovo ricordo (*)

Colsi invece un’altra. Mi ricordo che scrissi una lettera intitolata “Lei era lì“. Sintetizzava perfettamente lo stato d’animo che mi pervase quando riuscì a parlarle. Una bellezza incredibile: quasi 4 anni di amore e di tortura. Ci deve essere qualche traccia perfino su questo blog.

Non ho colto i miei talenti. Nei primi anni dell’università avevo iniziato a fare cose che mi piacevano, e molto. Poi ho voluto terminare gli studi di ingegneria. Mi piaceva poco, ma per amore dei genitori (e della metà degli esami fatti), terminai questa sorta di tortura. In seguito alcuni test hanno evidenziato che avevo altre inclinazioni, figuratevi.

Colsi molto poco della relazione con mio padre: solo dopo la sua morte ho iniziato un lento recupero cercando di capire cosa era andato storto. Sono certo che lui mi volesse bene oltre ogni limite: questo mi conforta, ma in fondo non più di tanto, non quanto vorrei.

Non ho colto le difficoltà lavorative. Ho fatto concorsi pensando di poterli superare con la sola capacità della mia intelligenza e dei miei studi: che illuso. Ho capito a mie spese che non funziona così. Sono andato a lavorare in società piccole e grandi senza avere la necessaria preparazione all’imperscrutabile logica aziendale.

Non colsi l’importanza della famiglia. A 40 anni si inizia a pensare che in fondo era quello che contava, quando eri giovane e spensierato. Solo che allora non te ne rendevi conto.

Non ho colto che l’umanità è fatta di persone ragionevoli e disposte al dialogo, ma una parte è succube di ideologie, di livore, di rancori e di paranoie: ho aperto canali di comunicazione pensando di poter parlare con tutti senza avere spesso – o ancora – gli strumenti, la
pazienza e la capacità di reggere l’urto.

Non colsi la mia aggressività. Continuamente controllata, dominata, e messa nella pentola col coperchio ben chiuso. Finché un giorno lo stomaco con dolori atroci mi ha informato di quella pentola. Ho fatto in tempo a capire cosa stava succedendo, per imparare a riconoscere la rabbia per tutte le cose che non ho colto.

Va bene lo stesso. In fondo, doveva andare così.

Il bigliettino che segue è un famoso racconto, che mi torna spesso in mente. E’ istruttivo.

Un esperto in time management, tenendo un seminario ad un gruppo di
studenti, usò una concreta esemplificazione che rimase per sempre impressa
nelle loro menti.

Poggiò sulla cattedra un barattolo di vetro, di quelli che si usano per la
conserva di pomodoro. Chinatosi sotto la cattedra, tirò fuori una decina di pietre, di forma
irregolare, grandi circa come un pugno, e con attenzione, una alla volta le infilò nel barattolo.
Quando nessun’altra pietra poteva entrare nel barattolo, chiese alla classe: “Il barattolo è pieno?”

Tutti risposero di sì.

“Davvero?”

Si chinò di nuovo sotto la cattedra e tirò fuori un secchiello di ghiaia.

Versò la ghiaia agitando il barattolo di vetro in modo che i sassolini scivolassero negli spazi fra le pietre.
Chiese di nuovo: “Adesso il barattolo è pieno?”

A questo punto la classe aveva capito.

“Probabilmente no.” rispose uno.

“Bene.” replicò l’insegnante.

Si chinò sotto il tavolo e prese un secchiello di sabbia, la verso nel barattolo, riempiendo tutto lo spazio rimasto libero.

Chiese: “Il barattolo è pieno?”

“No!” rispose in coro la classe.

“Bene!” riprese l’insegnante.

Tirata fuori una brocca d’acqua, la versò nel barattolo riempiendolo fino all’orlo.

“Qual è la morale della storia?”, chiese a questo punto.

Una mano si levò all’istante.

“La morale è: non importa quanto fitta di impegni sia la tua agenda, se lavori sodo ci sarà sempre un buco per aggiungervi qualcos’altro.”

“No, il punto non è questo.”, disse l’insegnante, “La verità che questa illustrazione ci insegna è che se non metti dentro prima le pietre, non ce le metterai mai.

Quali sono le pietre della tua vita? I tuoi figli, i tuoi cari, il tuo grado di istruzione, i tuoi sogni, una giusta causa. Insegnare o investire nelle vite di altri, fare altre cose che ami, avere tempo per te stesso, la tua salute, la persona della tua vita…

Ricorda di mettere queste pietre prima, altrimenti non entreranno mai. Se ti esaurisci per le piccole cose (la ghiaia e la sabbia), allora riempirai la tua vita con cose minori di cui ti preoccuperai non dando mai veramente il giusto tempo alle cose grandi e importanti.



(*) Riguardo la persona “giusta” che non si è saputa riconoscere, un tema che ricorre spesso, anche nelle esperienze degli amici, c’è
un noto ragionamento che si può riassumere con: “il senno del poi”.
Questo pensiero è generalmente duplice, da una parte tende a creare
autogiustificazioni, dall’altro sensi di colpa. L’autogiustificazione
da cui si viene sorretti è generalmente questa: “Se potessi tornare indietro, agirei diversamente; ma poi penso che se è andata così, doveva andare così.”
Insomma se non si è colta una persona ed una relazione, probabilmente
non si era pronti per farlo. Ma siccome questo non toglie affatto la
colpa, ecco che il nostro pensiero arriva per così dire “in soccorso”
aggravando la nostra posizione e decretando che pur non essendo maturi,
“avremmo dovuto renderci conto”.

Se si è credenti, il ragionamento si arricchisce di elementi superiori: “Forse
la situazione era stata studiata apposta da Qualcuno per farmi aprire
gli occhi e farmi capire quali fossero le cose importanti, quale fosse
il tipo di persona per me, magari per farmela cogliere quando fosse
passata sul serio.”

Certamente nessuno crede che questo Qualcuno si divertirebbe mai a
farci passare accanto la persona della nostra vita (anche se noi la
possiamo reputare tale) ed a farci soffrire, per non essere stati
capaci di accoglierla.

In realtà, sfugge però un dato importante. Facciamo una provocazione: Dio ha rinunciato
a mandare il Suo unico Figlio, pur sapendo che non lo avrebbero
riconosciuto? No, lo ha mandato lo stesso. E non è stato riconosciuto. Naturalmente, il paragone è ardito, perché in quel caso si poteva seguire ed incontrare il Signore (e quindi cambiare idea) nel corso del tempo, e in tutti i casi la relazione col Signore si può instaurare in qualsiasi momento della propria vicenda di vita; ma proprio per questo, invece, nel caso delle relazioni umane l’età fa da elemento discriminante.

C’è quindi un fattore: se una persona non ha colto una
relazione che era quella “giusta”, sicuramente c’è una responsabilità
personale derivante nel non aver riconosciuto quella persona, perché
questo evento rimane integro nella sua validità, e non
è corretto nè giustificato farlo diventare una “prova generale”. Da ciò ne discende la conseguenza, che nel nostro caso è il non ripetersi più
quell’occasione unica.

E’ difficile porsi quindi in un atteggiamento di
autogiustificazione nel caso di un errore così grossolano, anche se ci
sono tutte le attenuanti del caso come “non ero pronto o maturo” insieme ad
altre più o meno valide motivazioni. E’ vero invece che nel corso del tempo si
impara a valutare con la dovuta giustezza quell’evento ed a valutare
quanto fosse grave l’errore. Non si può più tornare indietro, ma
quantomeno si impara a convivere con le proprie responsabilità ed a
comprenderle: non toglie la colpa, ma il senso di colpa sì.

Non è cosa da poco: nel bellissimo film di Giuseppe Tornatore “Una pura formalità”,
un commissario metafisico decide di non far trapassare l’anima dello
scrittore Depardieu finché non abbia capito che l’assassino,
l’artefice della sua morte così atroce, non è che in fondo lui
stesso.

Un altro anno se ne va. E’ stato un anno un po’ difficile, ma la mia vita spirituale cresce. In fondo sono fiducioso: tutto è nelle mani del
Signore.

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