Luciano Giustini ragionamenti a lettere..

Tre parole per tre direzioni

Questo post è tratto dal contributo scritto in occasione della presentazione del lavoro di ricerca “Women Enhancing Work Change 2021”, (#WEWork2021) promosso dall’Istituto di Studi Superiori sulla Donna dell’Ateneo Pontificio Regina Apostolorum.

(…) Il mio percorso non lineare mi ha fatto conoscere ambiti molto diversi, comparti teoricamente distanti e m’ha consentito di conoscere e coltivare quella cultura trasversale che è un tema richiamato prioritariamente nell’ambito di ricerca e dai partecipanti.

In questo percorso il mio campo di ricerca è divenuto la comunicazione digitale, estremamente utile per comprendere come essa sia in effetti alla base della trasformazione e del cambiamento profondo che stiamo vivendo, al pari della trasformazione tecnologica e sociale che ne disvela i contorni.

Partendo da questa premessa e da questo percorso ho sviluppato una breve riflessione intorno a tre parole: #cambiamento, #competenze (digitali), #inclusione.

CAMBIAMENTO

Questo processo, che potremmo chiamare di umanizzazione delle competenze – inteso come connubio di elementi umanistici e scientifici – efficacemente descritto con l’acronimo STEAM (dove la A di Arts si riferisce, rispetto al classico STEM indicante le discipline scientifiche, alle scienze umane e sociali) – è un cambiamento importante. Rappresenta un patrimonio che le donne spesso riescono a far fruttare in modo assai meno vago e più concreto rispetto alla narrativa comune. Ed è un cambiamento che stiamo vivendo a velocità diverse, a seconda del luogo e del comparto professionale in cui è declinato, ma la cui marcia appare sempre meno incerta e più decisa.

La pandemia ha accelerato tutto, in particolare il processo di digitalizzazione e d’uso degli strumenti online (app incluse), che nel nostro Paese era – e per molti versi è ancora – zoppicante ed eterogeneo. Questo processo, che in realtà è una profonda riconfigurazione, non è soltanto tecnico ovvero non è relativo esclusivamente all’uso e alla conoscenza degli strumenti – ambito nel quale ad esempio i ragazzi sono enormemente più avanti delle generazioni precedenti – ma è molto più profondo: è infatti anche culturale, come tutti i veri cambiamenti.

Dopo la sbornia di figure iper-competitive, spesso conflittuali tipiche degli anni Ottanta e Novanta dello scorso secolo (ancora oggi molto vive perfino nel linguaggio – quando sento la parola ‘performante’ riferita a una persona mi viene la pelle d’oca), intessute di maschilismo e stereotipi difficili da superare, oggi il processo di cambiamento è entrato nel vivo. In una prima fase si è dato molto peso all’aspetto tecnico-scientifico, che ha avuto la meglio nel campo della formazione e della professione laddove esistevano ed esistono fortissimi squilibri, spesso del tutto immotivati, che non hanno premiato le donne. E ancora dobbiamo assistere a figure pubbliche o politiche che ripetono quegli stereotipi senza rendersi conto di quanto siano inattuali e sbagliati. Questo aspetto del cambiamento è importante per ridurre la disparità di genere e ovviamente fondamentale per l’accesso alle professioni, ma ancora incompleto.

Il passaggio sostanziale è, infatti, ancora in corso: il superamento della primazia delle sole conoscenze tecnico-scientifiche – che è ovviamente importante – a favore di una crescita in formazione, paritaria e matura.

La figura che evolve dalle caratteristiche di iper-specializzazione, magari imbevuta della narrativa della competizione e della prestazione, sta maturando in una figura professionale completa sostanzialmente diversa: essa coniuga competenze specifiche – certamente magari anche tecnico-scientifiche – a soft skill di alto profilo, unisce conoscenze di ambiti disciplinari diversi, come quelli psicologici e della comunicazione, a riflessioni filosofiche che esulino dal semplice utilizzo dello strumento o della tecnica, estendendo anche a valutazioni etiche e valoriali.

Queste componenti spesso sono state ritenute poco essenziali nel mondo professionale, dove le figure richieste sono ancorate a un rilievo quantitativo: il “bilancio di competenze” identifica quante cose si sanno fare. Tuttavia, la figura professionale che sarà sempre più ricercata riassume su di sé la capacità di avere uno sguardo d’insieme anziché rivolto ai singoli elementi, anche se importanti. E ad averlo nel contesto di una solidarietà diffusa, quindi estesa e comprensiva di una capacità empatica, che non prescinde dallo stesso ruolo professionale, e comunicarlo in modo appropriato, conoscendo le dinamiche di diffusione dei contenuti.

Questa crescita trasformativa è anche il portato del mondo complesso nel quale viviamo, dove la semplificazione di temi porta a soluzioni spesso non soddisfacenti, e l’iper-verticalizzazione del lavoro può comportare difficoltà nel momento in cui bisogna tenere conto di aspetti e valutazioni di ambiti diversi tra loro. La trasversalità, invece, incrementa significativamente la capacità di cogliere questi aspetti e coniuga competenze diversificate, che consentono anche lo spostamento tra professioni. Un portato del mondo del lavoro riguarda la competenza “fissa”, ma nel mondo digitale questo, ad esempio non è più vero: può rivelarsi un freno anziché una motivazione a scegliere strade più affini ai propri valori e attitudini.

Come sappiamo, non tutti i comparti professionali hanno le stesse prerogative, o riescono a cogliere il cambiamento digitale. Anzi, in alcuni casi questo risulta a detrimento della capacità di relazione (pensiamo alle professioni a contatto con realtà sociali complesse o nei paesi in via di sviluppo): questa è senz’altro la sfida che attende sia il mondo produttivo sia chi si accinge a intraprendere un percorso di studi o di scelta professionale. Lo studio, l’analisi e le prospettive di questo cambiamento sono la chiave per rendere il lavoro delle donne un vero fattore di sviluppo sociale, coniugando una solida base di studi con le competenze trasversali e multidisciplinari che sono sempre più importanti in moltissime professioni.

COMPETENZE (DIGITALI)

Al centro di questa riflessione ci sono le competenze, prioritariamente digitali, perché rappresentano la sfida più importante proprio a partire dalla comunicazione. Attualmente essa è al centro di un processo di cambiamento avviato dalla diffusione dei social network, e reso pervasivo dalla connessione in mobilità (always-on).

L’aspetto più significativo è dato, infatti, da questo doppio movimento: da una parte le piattaforme di intrattenimento, nate per scopi diversi, che sono passate a essere snodi di informazione multimediale su temi importanti e complessi, spesso soppiantando altre fonti più o meno specializzate e coprendo la discussione in modo preminente. Dall’altra, questa mole di contenuti e di informazione ci insegue ovunque, caratterizzata da molteplici scelte di fruizione e indirizza le opinioni anche quando (apparentemente) non vi partecipiamo. Questo flusso di dati, informazioni, notizie e intrattenimento è quindi diventata un’interconnessione complessa e sfaccettata, che segue logiche che nella mia esperienza professionale spesso non sono comprese né gestite in modo compiuto o adeguato, anzi.

Vorrei soffermarmi su alcuni elementi che fanno parte del bagaglio delle competenze:

  • Alfabetismo digitale
  • Criteri di diffusione dei contenuti
  • Educazione digitale

Prima dell’alfabetismo digitale, però, che vedremo essere un insieme di fattori, la cosa da considerare quando si esaminano le modalità con cui si esplicita la comunicazione digitale è il criterio seguito nella diffusione dei contenuti: non è la rilevanza o il migliore o maggiore interesse ma la popolarità a essere premiata. Tutti i social network, specialmente quelli mainstream, seguono da anni questa legge: il contenuto più popolare è quello che viene mostrato di più, e gli aggiustamenti sono davvero minimi rispetto al merito del contenuto; semplicemente se funziona diviene virale. E in fondo quello che funziona non è difficile da indovinare, seguendo questo criterio, e passa per la parola engagement: coinvolgimento.

Ad esempio, tutte le scelte compiute dagli algoritmi nel generare il feed, ovvero il flusso di informazioni, notizie e contenuti non seguono praticamente mai un criterio di neutralità, o comunque di selezione casuale ma premiano ciò che garantisce un maggior coinvolgimento emotivo. Insieme ai criteri di selezione riferiti alla popolarità, seguono i fattori commerciali, essendo questa la principale fonte di ricavo economico dei social media – e quindi parliamo dei contenuti sponsorizzati, e di targetizzazione dell’audience.

Successivamente, al netto di queste componenti primarie, ci sono i fattori di indirizzamento e di filtraggio sulla base delle nostre scelte pregresse. Ovvero, quello che l’algoritmo pensa che a noi interessi di più. Il principale effetto collaterale è il cosiddetto fenomeno delle bolle digitali mentre l’altro, meno conosciuto, è quello delle camere dell’eco. Il primo è la componente algoritmica che seleziona i contenuti sulla base di alcuni fattori: come abbiamo detto, le nostre scelte precedenti sia sulla piattaforma social sia su altre piattaforme o portali nei quali veniamo tracciati, poi la posizione geografica, il tempo di sosta sui vari contenuti (quanto stiamo su un video, quali frame preferiamo, dove ci dirigiamo successivamente), ecc. Tutte le scelte compiute, questi fattori, spesso in forza di migliaia, fanno parte della profilazione, precisa e puntuale, che implica anche il secondo fenomeno, le echo chamber. In italiano possono essere tradotte in casse di risonanza (o camere dell’eco come già detto), e sono stanze virtuali, immateriali e invisibili nelle quali si viene e si rimane inseriti senza accorgersene. In queste cerchie virtuali vengono condivise solo idee, informazioni e fonti affini con le idee che già abbiamo, attraverso meccanismi che l’algoritmo di selezione opera per “compiacere” la nostra permanenza sul social e farci restare di più sulla piattaforma – elemento questo che è alla base del fenomeno. La convergenza, infatti, nasce con l’intento di massimizzare il ritorno economico, prima che ideologico, e ha l’effetto di rinforzare tali idee e di operare una crescente selezione che faccia da effetto ricompensa per far accrescere l’utilizzo dello strumento. Questo aspetto però influenza anche il modo in cui ci informiamo, e le persone con cui entriamo in contatto sui social e non solo. Uno degli aspetti più curiosi e inquietanti è la cosiddetta segregazione, che esclude idee e fonti discordanti quando si è pienamente inseriti in queste camere dell’eco.  Se è l’algoritmo che decide per noi cosa vedere e cosa non vedere, la possibilità di effettuare una selezione consapevole e critica delle fonti, scema, e alla fine per semplicità ci dobbiamo fidare. Naturalmente, il più delle volte il meccanismo funziona, ovvero ci mostra proprio quello che “ci interessa”. Ma questo proprio perché funziona, genera l’effetto negativo che è la polarizzazione: ovvero la radicalizzazione del pensiero in estremi opposti, dove il dialogo e il confronto alla fine risultano molto ridotti se non annichiliti.

Il secondo elemento della riflessione sulle competenze digitali, parte proprio dalla consapevolezza dei meccanismi che sovraintendono alla diffusione dei contenuti e delle notizie. Si parla di agenda setting nel campo giornalistico, e questo è sicuramente uno dei casi principali di applicazione, che potremmo dire automatica.

Tale percorso di consapevolezza però è parte di un aspetto più ampio che va sotto il nome di alfabetismo digitale (o della sua controparte negativa, l’analfabetismo). Parola che spesso viene ‘aggettivizzata’ con varie locuzioni: da digitale, a funzionale, a letterale, ecc.

L’analfabetismo digitale è uno dei problemi e delle sfide più importanti nei Paesi sviluppati e anche in quelli non sviluppati. È noto, ad esempio che l’Italia è agli ultimi posti per quanto riguarda l’alfabetismo digitale. Tuttavia, questo non è come spesso si ritiene soltanto l’incapacità di utilizzare lo strumento digitale, ma anche di comprenderne i meccanismi di funzionamento, e quindi le dinamiche di fruizione dei contenuti, dalla selezione delle informazioni al filtraggio operato dagli algoritmi. Questa componente formativa spesso è sottovalutata nei corsi di specializzazione e di formazione sulle competenze digitali: si ritiene infatti che l’aspetto più importante sia l’apprendimento delle funzionalità dei social (pensiamo ad esempio a tutte le figure di social media management e affini), nei termini di popolarità, di vendita commerciale, di un marchio, un prodotto, o di sé stessi. Tuttavia, queste dinamiche influenzano indirettamente il processo, creando distorsioni che influenzano anche aspetti culturali e sociali di cui si percepiscono i contorni solo quando è tardi: è il caso, ad esempio, del reputation management o della gestione delle crisi, ma anche le stesse problematiche relative ad esempio all’infodemia, alla proliferazione di informazioni discordanti quando non addirittura false sui vaccini e sul covid19.  

Dunque, la formazione delle competenze digitali è un processo composto da vari elementi:

  • La tecnica – necessaria – sull’uso degli strumenti e sui loro meccanismi; questi elementi sono spesso richiesti dal mercato del lavoro e sono necessari. Ma non sono sufficienti.
  • la conoscenza delle distorsioni e dei processi di funzionamento degli stessi, anche in ottica della profilazione molto selettiva che abbiamo visto essere parte costitutiva della fruizione digitale;
  • la capacità critica di riconoscere la non neutralità delle selezioni dell’algoritmo e il riconoscimento delle narrazioni sottostanti;
  • l’expertise critica per comunicare uscendo dalla “bolla”, proponendo contenuti diversificati capaci di estendersi al di fuori delle cerchie virtuali, costruite dagli stessi meccanismi di funzionamento.

A tal proposito, basti pensare a tutto il problema delle fake news o dei complotti: sviluppare capacità critica e competenze digitali significa (anche) questo. Il filtraggio degli algoritmi e la diffusione del meccanismo della popolarità sono temi che difficilmente sono individuati immediatamente. Quindi per una consapevolezza digitale diviene fondamentale saper, ad esempio, individuare le fonti attendibili, selezionare con cura prima di condividere per evitare di diffondere maggiormente informazioni fuorvianti o dannose, adottare metodi d’indagine e controllo dei contenuti almeno per una verifica primaria. Adottare il principio di cautela prima di prendere per buona qualsiasi notizia anche proveniente da giornali o fonti popolari.

Queste prerogative, peraltro, sono frutto di ricerche scientifiche che al pari delle altre ricerche hanno fatto piena luce su queste dinamiche. Per questo rivolgo anche un invito, che in genere estendo ai miei studenti, e alle classi di ogni ordine e grado, a investire in una dieta informativa – equilibrata e diversificata, che includa anche chi fa divulgazione su questi temi, e chi propone notizie e approfondimenti che aiutino a orientarsi nella cacofonia delle voci. Senza fermarsi solo a quelle più diffuse o a conferma del nostro modo di pensare o vedere le cose. La proposta univoca in tal senso potrebbe essere una trappola tesa dall’algoritmo.

Investire nell’educazione digitale facilita peraltro le donne, già in molti casi favorite nell’ambito della comunicazione, e le aiuta ad accrescere l’empowerment e la possibilità di accesso alle professioni del futuro.

INCLUSIONE

Quando ci accingiamo a individuare prospettive e percorsi da intraprendere, sia nel breve che nel lungo periodo, non possiamo non entrare in contatto con un “elefante nella stanza” che è presente nella discussione: come in tutti i cambiamenti epocali, c’è chi rimane indietro e chi fa fughe in avanti. Questa sorta di elastico è uno dei processi più difficili da gestire nelle fasi di profonda riconfigurazione, e si esplicita nel fenomeno della esclusione e dell’inclusione – sociale, economica, professionale, umana.

Il cambiamento, che abbiamo detto anche culturale, per essere davvero un fattore di sviluppo sociale dev’essere inclusivo, nella sua forma più estesa; e l’inclusività ha diverse componenti. La prima, più importante, è quella di ridurre le disuguaglianze e le disparità di genere. L’inclusività ha la sua ragion d’essere nello sguardo che si ha sull’altro, sguardo che abbiamo invocato più maturo, solidale, e completo. In questo senso la formazione professionale è fondamentale, ma non certo l’unico strumento di cui disporre. La formazione, in un mondo così complesso come quello in cui viviamo, è difficile da tratteggiare con un percorso univoco: di sicuro, però, lo sviluppo delle competenze trasversali è una chiave per accrescere il patrimonio personale di esperienze e capacità, da spendere in diversi contesti. La stessa capacità critica, il bagaglio di competenze che consente di cogliere le diverse sfumature dell’esperienza, è uno strumento fondamentale. Saper leggere la realtà con occhiali differenti, e che tengano conto della complessità e dei punti di vista differenti, e lo vediamo abbondantemente nella comunicazione, è un tipico soft skill trasversale ed è un asset che spesso fa fare il salto di qualità, anche e soprattutto in ambito professionale e lavorativo.

L’inclusione, però, ha anche un’altra componente, a mio avviso molto importante: il tentativo di non lasciare indietro chi non comprende questo cambiamento, o di lasciare fuggire in avanti chi ritiene di averne colto già tutti gli aspetti e vuole applicarli subito. È peraltro, soprattutto la prima, una componente tipica dell’ambito cattolico e che è ribadita e ricordata con forza da Papa Francesco.

Entrambi questi atteggiamenti, se sottovalutati o peggio ignorati, spesso rischiano di vanificare tutto il processo e lasciano, specialmente nel campo professionale, vittime sul terreno che talvolta sfuggono ai radar. Una componente che è presente quando c’è un cambiamento accelerato, come quello odierno, fatto anche di diseguaglianze profonde e conflitti sociali.

Anche qui, l’ambito della comunicazione in particolare quello digitale, dei social media, è uno specchio perfetto per osservare questi problemi nella loro dinamica. Non ci sono, infatti, solamente le foto dei tramonti di Instagram o i volti felici dei traveler a dominare la presenza più o meno positivista dei social, ma in rete pullulano gruppi dove il furore ideologico e lo scontro sociale sono solo mediati dal mezzo telematico, ma la cui intensità è spaventosa. I fenomeni delle echo chamber e di altre dinamiche di propagazione dei contenuti fanno sì che, quasi sempre, si veda soltanto una parte dei contenuti, anche solo di amici e colleghi. Talvolta, a parte gli studiosi, quello che appare è soltanto un’infinitesima parte delle discussioni – parte che a volte è anche scambiata per il tutto, Twitter docet. Questa esclusione è un problema che sta diventando importante, e che non è affatto stato risolto dall’avvento dei social network. Il fatto che la maggior parte di noi non veda queste realtà, infatti, non significa che esse non esistano.

Chi ritiene che il cambiamento sia troppo o troppo veloce, dall’emancipazione femminile allo sviluppo della capacità critica, dalla perdita di (finti) punti di riferimento sul ruolo della donna, alla formazione professionale di alto livello che è esclusiva, inizia spesso un percorso di polarizzazione che porta a risultati erratici. Talvolta è unito a credenze religiose curiose, altre volte è in situazioni di disagio sociale o professionale, ma non è sempre così, anzi. Spesso si tratta di percorsi del tutto normali in contesti normali. Però è un fattore importante di cui è necessario tenere conto: l’inclusione deve avere il coraggio di formare anche chi è imbrigliato, senza colpa, in un contesto di convinzioni non aggiornate, non fondate, senza implicare peraltro di essere ‘detentori della verità’ ma anzi incoraggiando il confronto e il dialogo nel rispetto delle rispettive peculiarità e percorsi formativi.

Allo stesso modo e specularmente, chi ritiene invece di aver capito tutto e di disporre di uno sguardo sul futuro chiaro e cristallino, tira la fune dal lato opposto. Spinge perché il cambiamento avvenga più rapidamente e non importa chi non si adegua o non lo accoglie. Questo atteggiamento è molto diffuso in ambito scientifico e ancora più diffuso nel contesto digitale, nella comunicazione veloce e “attualista” dei social. Il problema è che accelerando un processo di cambiamento che è già tremendamente veloce ed escludendo altri, si corre il rischio di provocare fratture sociali, che non premiano un vero cambiamento culturale diffuso ma lasciano cicatrici e accrescono la polarizzazione.

CONCLUSIONI

In conclusione, l’alleanza tra uomini e donne promossa da questa ricerca può passare anche dalla necessità profonda dello sviluppo delle competenze trasversali, digitali e di formazione multidisciplinare: componenti fondamentali perché il processo di cambiamento sia per tutti. Affinché questo avvenga, il modo più concreto è il contesto di una formazione scientifica e umana che unisca le diversità e permetta di cogliere l’intersecarsi dei fattori complessi, in una fruttuosa collaborazione. Al pari del cambiamento in atto e delle competenze digitali, c’è il tema dell’inclusione: non lasciare indietro chi non accoglie subito i cambiamenti e la complessità che è insita nel processo, è un antidoto al virus dell’incomunicabilità, paradossalmente una questione spesso sottovalutata nell’epoca dei social network. Se l’inclusione non funziona, infatti, il possibile effetto è da una parte di sollecitare troppo cambiamento solo per alcuni e dall’altra instillare pericolose radicalizzazioni in altri.  Dinamiche che vengono amplificate e rinforzate dagli algoritmi, in camere stagne dove ognuno la pensa uguale all’altro, rinforzando pensieri e convinzioni senza un confronto.