L'anno scorso scrivevo il bilancio di un anno bello e denso di avvenimenti importanti, mentre il 2018 è stato piuttosto complicato. Anche introspettivo, di riflessione: alcune cose sono andate in porto, e altre non hanno avuto l'esito che speravo. Non mi lamento (non troppo, diciamo): non sono mancate soddisfazioni dai miei studenti, in particolare nel Laboratorio a Tor Vergata, e altri progetti che bollono in pentola speriamo che possano vedere la luce nel nuovo anno.
Nel complesso anche il numero di libri in lettura è stato buono - sebbene inferiore a quello del 2017 quando, però, ero impegnato a scrivere tesi e libro, e dovevo documentarmi su una serie di fonti molto più ampia.
Allora partiamo con i miei personalissimi consigli per i libri da mettere sul comodino. In cima alla lista, non posso che mettere il mio tomo, pubblicato a ottobre 2018 dopo una revisione durata più di un anno.
Cluster Digitali. Narrazione collettiva nell'era dei social network.
Il volume, direi corposo (428 pp.), è diviso in tre grandi parti che a loro volta contengono differenti sfaccettature dell'argomento esaminato: nella prima, faccio un excursus storico-tecnico sui primordi del Web, per arrivare ai prodromi dei social media. Nella seconda parte, che è quella centrale e dà il nome al libro, parto da un approfondimento psicologico del tema della narrazione personale per arrivare al più grande problema di quella collettiva, espansa e "pantografata" in grande sui social network, e di come si collochi all'interno di un quadro problematico di analfabetismi e false percezioni di cui - in particolare in Italia - soffriamo. Nella terza parte, più pratica, esamino una serie di strumenti per affrontare la rete, accrescere le competenze digitali e la capacità critica: come verificare le fonti, come orientarsi nel processo entimematico di verosimiglianza, insieme a una "cassetta degli attrezzi" sempre pronta.
Una nota, attuale. In diverse parti del mio libro parlo di Stephen Bannon, che sta tornando alla ribalta proprio in questi mesi con il suo The Movement. Già dal 2016 fondatore del sito di estrema destra Breitbart e poi capo stratega di Trump, avevo intuito la sua tragica importanza negli sviluppi della politica americana. Questa sembra confermata dall'evolersi della sua influenza sull'Europa, e la sua volontà di portare l'onda di populismo al massimo che gli è possibile. Ne riporta ampiamente il Corriere dela Sera, A casa di Steve Bannon: «Nella mia scuola formerò agenti del populismo Salvini e Di Maio? Ottimi», un'intervista da leggere.
Fuoco e Furia. Dentro la Casa Bianca di Trump
Michael Wolff
A tal proposito, e per rimanere in tema, è interessante il libro di Wolff, giornalista di lungo corso che inizialmente voleva limitarsi ad indagare sui primi cento giorni della presidenza Trump, e che è arrivato a duecento e oltre, per un'idea di quello che sta succedendo Oltreoceano - che come si sa ha poi ripercussioni in tutto il mondo. Wolff regala un quadro abbastanza verosimile e inquietante della più controversa e pericolosa esperienza presidenziale degli USA degli ultimi decenni. Dalla sinossi di IBS:
Il primo anno della presidenza di Trump è stato travolgente e scandaloso per gli Stati Uniti e l'intero mondo. Per raccontarcene gli effetti, Michael Wolff, giornalista che già durante la campagna elettorale aveva frequentato il quartier generale di Trump, si infila nella Casa Bianca "come una mosca sul muro". Wolff osserva da una prospettiva unica il caos nello Studio Ovale e si trova tra le mani un libro esplosivo ricco di retroscena inediti. Trump pensava realmente di vincere? E lo voleva davvero? Quali sono i fini di "Jarvanka", la creatura bifronte composta dalla figlia Ivanka e dal marito Jared Kushner? Perché è stato licenziato il capo dell'FBI, James Comey, e dopo di lui il capo dello staff, Reince Priebus? Perché è stato licenziato Steve Bannon, lo stratega (e anima nera) che aveva portato Trump alla vittoria? Chi è la gola profonda delle rivelazioni sugli incontri tra lo staff di Trump e i russi? Perché è inutile fornire a Trump relazioni, analisi e qualunque testo scritto? Chi sta dirigendo davvero la Casa Bianca? Fuoco e furia è il libro che Trump ha tentato invano di bloccare, un caso mondiale che racconta la storia appassionante di un mandato imprevedibile e impetuoso quanto il presidente stesso.
Psicopolitica. Il neoliberismo e le nuove tecniche del potere, di Byung-Chul Han
Un'infinita possibilità di connessione e di informazione ci rende veramente soggetti liberi? Partendo da questo interrogativo, Han tratteggia la nuova società del controllo psicopolitico, che non si impone con divieti e non ci obbliga al silenzio: ci invita invece di continuo a comunicare, a condividere, a esprimere opinioni e desideri, a raccontare la nostra vita. Ci seduce con un volto amichevole, mappa la nostra psiche e la quantifica attraverso i big data, ci stimola all'uso di dispositivi di automonitoraggio. Nel panottico digitale del nuovo millennio - con internet e gli smartphone - non si viene torturati, ma twittati o postati: il soggetto e la sua psiche diventano produttori di masse di dati personali che sono costantemente monetizzati e commercializzati. In questo suo saggio, Han pone l'attenzione sul cambio di paradigma che stiamo vivendo, mostrando come la libertà oggi vada incontro a una fatale dialettica che la porta a rovesciarsi in costrizione: per ridefinirla è necessario diventare eretici, rivolgersi alla libera scelta, alla non conformità.
Suo anche (di cui consiglio la lettura, specialmente di questi tempi) "L'espulsione dell'Altro", del 2017.
Retrotopia
Zygmunt Bauman
Non può mancare un titolo del grande sociologo, filosofo e accademico polacco, che ha coniato il termine della "società liquida", recentemente scomparso. In questo caso consiglio il suo ultimo libro (poi è stato pubblicato un altro volume postumo) dal titolo originale dell'autore che è stato mantenuto intonso: Retrotopia. Mi è capitato di acquistarlo a un convegno dedicato ai tempi del governo gialloverde e delle controverse scelte politiche, con un intenso dibattito sulla "voglia di tornare indietro": questo volume mi sembra perfetto.
Dalla descrizione: Abbiamo invertito la rotta e navighiamo a ritroso
«L'utopia di Tommaso Moro di instaurare il "cielo sulla terra" non esiste più perché il futuro, troppo incerto e spaventoso, è considerato inaffidabile e ingestibile. Così, mentre prende piede l'individualismo che cancella il senso di comunità, il passato si trasforma in una condizione rassicurante e nell'unica prospettiva accettabile» - Robinson, La Repubblica
Il futuro è finito alla gogna e il passato è stato spostato tra i crediti, rivalutato, a torto o a ragione, come spazio in cui le speranze non sono ancora screditate. Sono gli anni della retrotopia. La direzione del pendolo della mentalità e degli atteggiamenti pubblici è cambiata: le speranze di miglioramento, che erano state riposte in un futuro incerto e palesemente inaffidabile, sono state nuovamente reimpiegate nel vago ricordo di un passato apprezzato per la sua presunta stabilità e affidabilità. Con un simile dietrofront il futuro, da habitat naturale di speranze e aspettative legittime, si trasforma in sede di incubi: dal terrore di perdere il lavoro e lo status sociale a quello di vedersi riprendere le cose di una vita, di rimanere impotenti a guardare mentre i propri figli scivolano giù per il pendio del binomio benessere-prestigio, di ritrovarsi con abilità che, sebbene faticosamente apprese e assimilate, hanno perso qualsiasi valore di mercato. La via del futuro somiglia stranamente a un percorso di corruzione e degenerazione. Il cammino a ritroso, verso il passato, potrebbe trasformarsi in un itinerario di purificazione dai danni che il futuro ha prodotto ogni qual volta si è fatto presente.
Vivere momento per momento
Jon Kabat-Zinn
Non potevo non finire con un libro che non può mancare per chi voglia andare oltre la cultura dell'apparenza. La mindfulness, sostanzialmente la meditazione orientale in un modello occidentale, è uno dei più importanti apporti degli ultimi anni, un contributo significativo alla crescita personale. Il percorso della meditazione insegnato da Kabat-Zinn, fondatore di questo modello e della sua scuola impartita e sperimentata su basi scientifiche, conduce a una profonda autoconsapevolezza che apre la mente a un modo nuovo e più sereno di pensare alla salute, al lavoro e alla vita di relazione. Inoltre la descrizione di numerosi casi, raccolti in dieci anni di lavoro come medico, illustrano concretamente le tecniche.
Peccato solamente che nell'edizione italiana, tradotta e pubblicata da TEA, ci sia un'errata impostazione tipografica, ovvero i caratteri sono troppo piccoli. Questo difetto rende la lettura meno agevole: speriamo che in una prossima edizione venga risolto, portando il carattere a una grandezza standard e appropriata alle dimensioni del volume.
]]>Dando per scontato che Netflix è una droga, nelle mie serate di preparazione a un esame mi è capitato di guardare distrattamente Anon, un film distribuito da Netflix per la regia di Andrew Niccol (Gattaca, S1m0ne, InTime). L'ho poi rivisto per la seconda volta, fermandomi su alcuni frame, cosa che si può fare solamente da un computer. In questo contesto, Anon (da anonymous) è un piccolo capolavoro e insieme un incubo.
L'idea di base è interessante: realtà aumentata sulle persone e non solo sulle cose. Scena dopo scena, dei metadati descrivono esattamente quello che vede un detective di un ipotetico futuro (impersonato da Clive Owen); in un mondo futuristico la privacy è un concetto superato e la trasparenza un obbligo di legge. Di ogni persona, o cosa, inquadrata da un bioimpianto oculare (innestato alla nascita, presumibilmente), viene mostrata in realtà aumentata età, nome, impiego, caratteristiche fisiche, tratti della personalità (incluse eventuali psicopatologie), condanne, atti efferati, tic, eccetera. Degli oggetti viene mostrato il valore, l'età, la tipologia, l'utilizzo, il costo, e se sono in vendita la pubblicità; dei cibi, viene mostrata la composizione, il valore nutrizionale, la quantità e così via. Questo per tutto ciò che è osservabile sulla scena.
Il costrutto ipotetico su cui è fondata la società tecnologica descritta in questo futuro, dunque, è che i metadati restituiscano informazioni non solo su ciò che cerchiamo o all'interno di un ecosistema ma su tutto ciò che vediamo, nel presente o nel passato (essendo tutto registrato). Il nostro protagonista quando guarda una persona - anche, anzi soprattutto, sconosciuta - vede una cosa del genere:
Sembra futuribile, ma assomiglia molto a una società conosciuta, un incubo "desiderabile" anche piuttosto vicino: se state pensando ai social network o ancor di più a Black Mirror, credo che il riferimento sia un po' quello per tutti. Non è esplicito (non sarebbe giusto con il regista), ma il filone concettuale è quel futuro: un futuro distopico dove il senso di sé è messo in discussione dalla tecnologia, in accordo con leggi accettate da tutti. La trama, abbastanza comune in molte visioni distopiche dei film recenti, è sacrificare una grossa parte della libertà per aumentare la sicurezza (e in teoria la giustizia). In questo caso la polizia può conoscere l'esatta dinamica di ogni evento criminoso semplicemente verificando le registrazioni, dal punto di vista del criminale, della vittima, o eventualmente di terze persone presenti sulla scena. Tutto poi è salvato su un enorme database centralizzato che naturalmente - senza spoilerare troppo - è anche il punto debole della faccenda.
Comunque, a parte i particolari informatici a volte un po' banalizzati, e il solito hacker di turno, guardarlo con attenzione regala due cose: la fotografia cara al regista, una sorta di futuro anni '70, e altri che su uno schermo cinematografico si perdono: i dettagli delle minuziose descrizioni che - a sorpresa - sono veritiere. All'inizio pensavo che le schede dipanate per ogni persona fossero una serie di lorem ipsum messi lì per riempire il vuoto, e invece no: sono "vere", con dati inventati ma comunque plausibili, e quelle sugli oggetti e i cibi sono invece reali in tutto e per tutto.
La questione, purtroppo poco sviluppata nel film (più concentrato sul lato criminale, e si perde anche un po' nel finale) è il legame tra questa possibilità voyeurista, resa concreta dal legame tra tecnologia e visione distribuita, e le implicazioni sul piano cognitivo-decisionale. Ogni soggetto ha la sua scheda, e questa scheda riporta i tratti caratteriali, il passato, le azioni, eccetera: una specie di network pervasivo dove invece di avere un "profilo Facebook" scritto da sé (e a propria scelta), tutti devono avere un profilo obbligatorio che viene mostrato a chi ha i privilegi e condiviso con chi si vuole. Tutti i dati sono schedulati e vengono aggiornati - presumo - con una qualche frequenza.
Ora, quello che viene mostrato e registrato - esattamente come avviene oggi con i social - è quello che la persona guarda, fa, dice o scrive. Cosa si sa di quello che è il suo pensiero? Poco o nulla, come poco si sa delle intenzioni e delle motivazioni, che infatti non vengono mai spiegate, se non molto superficialmente. Nel film la complessità della questione cognitiva viene risolta in modo spesso banale, semplicemente concentrandosi sull'azione-reazione. In questo caso, la scelta di limitare i dialoghi facendo parlare solo le immagini ha un senso e forse è una precisa scelta di regia.
Rimangono insoluti due problemi: le schede sono un distillato di ciò che la persona è, ma le persone cambiano. Quindi ogni volta che si esamina la scheda di un altro si guarda uno storico che potrebbe essere non aggiornato o rappresentare una scorciatoia per il più classico pre-giudizio: la scheda è una proiezione esattamente come lo è il profilo Facebook di una persona che pensiamo di conoscere. Questo aspetto è probabilmente proprio quello voluto dal regista, che immagina le società del futuro sempre intrinsecamente dominate dalla tecnologia, che rende l'uomo più potente, ma anche più infelice, rigido nelle sue idee e chiuso alle emozioni (Gattaca in questo senso è il riferimento).
La seconda questione riguarda il grande aspetto delle motivazioni, lasciato sospeso. In una scena iniziale si assiste a un suicidio: viene registrato tutto il punto di vista del suicida ma non una parola sul perché lo fa. È un fil rouge presente in tutto il film: nessun protagonista, neanche minore, spiega quali emozioni lo conducono a certe scelte. Tutto si basa sul non detto, o per meglio dire su un appiattimento caratteriale che forse è anche il limite della pellicola. Il non detto è importantissimo in un film che gioca sul conflitto cognitivo-emotivo (mi viene in mente il bellissimo Ida, dove ci sono pochissime parole ma comportamenti chiari), ma in Anon c'è qualcosa che manca.
Anche se non è sviluppato adeguatamente, il tema che dietro a ogni sguardo potenziato c'è un pensiero e un movente, di cui non sappiamo nulla, rimane. Quando il protagonista si concentra su ciò che vede, pensa di vedere una realtà che, pure aumentata, rimane però molto parziale.
]]>A marzo del 2017 Michal Kosinski, uno psicologo e Ph.D di Cambridge, professore a Stanford di Organisational Behavior, presenta al CeBIT i risultati di alcuni suoi studi: la Psicometria applicata nel contesto dei Social media. Più precisamente una delle metodologie più applicate: i cosiddetti Big Five (cinque tratti di personalità, tradotti in italiano con: apertura mentale; coscienziosità; estroversione; amicalità e stabilità emotiva - neuroticism in inglese), attraverso i quali si creano dei grandi cluster di profilazione. Se non vi fa pensare ai miei Cluster digitali avete ragione: sono infatti due cose diverse, anche se contigue.
Dicevo, la psicometria è nota e usata fin dagli anni Novanta per determinare i tratti di personalità con un modello metrico, appunto: mediante interviste, sondaggi, ecc. Kosinski ha utilizzato i dati dei social, Facebook in particolare, per arrivare a risultati più precisi in minor tempo. Nel video mostra un grafico nel quale, analizzando i like degli utenti della sperimentazione, individua i tratti di "personalità" con precisione: con poche centinaia di like, in particolare, l'accuratezza che lui afferma sfiora il 90%. Il video si chiama "The End of Privacy", c'è anche un sito da lui predisposto - potete provare se volete, basta loggarsi con Facebook: applymagicsauce.com
Anche sulle ricerche del professore di Stanford si fondano molte attività alla base dello "scandalo" datagate che ha coinvolto Facebook. Le ripercussioni nelle elezioni americane del 2016, nel referendum della Brexit e, secondo alcune fonti come il Guardian, anche in altri casi, sono al centro delle attività di questa società dal nome evocativo, Cambridge Analytica (la cui origine vi è ovvia, adesso). La quale non è certo l'unica - come confermato da Zuckerberg - ma oggi la più famosa a fare uso dei dati per fini commerciali e politici. Su tale argomento vi rimando a un articolo del Post che spiega bene l'accaduto (un giro sul profilo Twitter di CA comunque può essere istrutttivo, in parte perché si occupano di "Behavioral Microtargeting", e in parte per i loro following...).
Il comportamento automatico
Quello che volevo sottolineare però è un altro aspetto di questa vicenda, ovvero il comportamento che c'è spesso dietro alle nostre attività - sui social e non solo. Kosinski, se avete avuto la pazienza di vedere il video, dimostra che con un certo numero di like è in grado di delineare i tratti di personalità. È così? Possiamo rispondere di sì, in generale. Però, cosa vuol dire che "delinea la personalità" e soprattutto che cosa "osserva"?
La psicometria è una descrizione oggettivo-descrittiva: osserva e cataloga. Prima di Internet si utilizzavano le indagini e le interviste di persona, cioè uno psicologo o uno psichiatra controllavano il contesto esperienziale, e la persona mentre faceva i test. Quello che succede coi social invece è un po' diverso, e si manifestano tre cose: i) i fenomeni di disinibizione e ii) decontestualizzazione, e iii) una serie di "comportamenti automatici". La disinibizione data dal mezzo - cioè il fatto di avere davanti uno schermo e non una persona in carne e ossa - è un fattore determinante, perché non ci consente di renderci conto delle sfumature di comunicazione non verbalizzata, e sono molte. I comportamenti automatici che si scatenano in questo contesto (social) rendono l'osservazione molto soggetta a fraintendimento, anzi direi che è la cosa più comune (basta vedere nei commenti, nei flame, nelle infinite discussioni, ecc.).
Il discorso decontestualizzazione esperienziale però è più interessante. Cerco di spiegarlo in breve: il fatto di leggere una cosa o di scriverne sui social è molto lontano dall'avere un'esperienza di quella cosa. Le modalità di coinvolgimento dei social media rendono la narrazione un po' più distante dalla realtà, collocando l'esperienza condivisa in un "non-luogo virtuale" il quale è trasmesso e verbalizzato.
In tempi di profonde trasformazioni nel contesto della comunicazione e dell'interazione verso l'altro, il mezzo influisce in modo molto più subdolo di prima: oggi Facebook viene consultato da miliardi di persone ogni giorno (e decine di milioni solo in Italia), perlopiù in mobilità. Si è sempre connessi e si parla delle proprie cose, delle proprie esperienze, e questo avviene però, nella maggior parte dei casi, senza appartenere al contesto in cui le cose si vedono ed avvengono. È come una sorta di dialogo a distanza: il luogo è virtuale e perennemente decontestualizzato. In questa modalità è come se mancasse la possibilità di riflettere sull'esperienza comune che si condivide. Si parla "al di là dell'esperienza", che non è un "insieme a" ma è trasmessa, verbalizzata - viene creata dalle parole e dalle immagini, scelte tra le più suggestive e coinvolgenti. E dove i giudizi, tra l'altro, si sprecano.
La psicometria così è un osservazione dall'esterno di cose che noi abitualmente facciamo e diciamo o di quello che altri fanno o dicono; nel caso dei social, che gli altri scrivono. Attenzione, però, perché la nostra conoscenza dell'altro è influenzata dai nostri bisogni e aspettative. A questo punto la domanda sorge spontanea: questi dati che si leggono e si vedono, quanto corrispondono a quello che la persona è, alle sue motivazioni interiori? Beh, purtroppo poco. Una vera consapevolezza esige il disvelamento dei propri meccanismi interiori di autoinganno, di conoscenza del Sè, di narrazione personale. Inoltre, la relazione tra comportamento esterno e pensiero si disvela tramite l'azione.
Non solo. Anche l'azione e il comportamento, che si ritiene pensato, riflettuto, frutto di libero arbitrio, in molti casi è invece automatico (tramite le euristiche, quando va bene, o i bias quando c'è distorsione cognitiva...). Spesso la persona non conosce veramente le ragioni per cui fa qualcosa, a volte interrogata sulle motivazioni del proprio comportamento fornisce delle spiegazioni non congrue. Qualsiasi psicologo o psicoterapeuta vi confermerà questa esperienza: è il costrutto narrativo in cui si "racconta una realtà". Già il fatto che il nostro comportamento sia espressione diretta e consapevole della nostra volontà nella realtà è discutibile; figuriamoci sui social.
Gli algoritmi e la consapevolezza
Torniamo agli algoritmi. Loro sanno qual è la molla o il movente che innesca e provoca un comportamento automatico? Tendenzialmente sì, ma con dei distinguo molto importanti. Ad esempio la propaganda: il richiamo a un ideale, a un valore, a un bisogno o a una paura sono temi conosciuti dal marketing comportamentale e ampiamente sfruttati da professionisti della comunicazione. Il problema qual è? Che se questi click, questi like, sono frutto di comportamenti automatici allora non sono particolarmente consapevoli. In altre parole la persona che fa click, mette un like ecc. sulla base delle sollecitazioni, agisce in un contesto di cui non ha pieno controllo né piena consapevolezza in un significato più generale. Dunque, in questo contesto gli algoritmi osservano tali reazioni e tali comportamenti e misurano il grado di inconsapevolezza che questi comportamenti hanno. È un problema? Probabilmente no, ma nel senso che queste dinamiche non dipendono primariamente dai social. L'inconsapevolezza c'è a prescindere: si esplicita su Facebook perché è il social più diffuso e con più capacità di attrarre fiducia e coinvolgimento. Il fatto che "ci condizioni", ad esempio, è abbastanza privo di senso: gli algoritmi amplificano, selezionano e ci presentano una "realtà" che è in gran parte quella che già vediamo o, meglio, che vogliamo vedere. Tanto che se non ce la presentano loro l'andiamo a cercare noi (lasciando tracce puntuali, peraltro, che li aiutano nella selezione). La differenza è che sono molto bravi e precisi, e stimolano i comportamenti automatici per tracciarne la magnitudine e presentare i contenuti voluti a un sempre più ampio numero di persone (e inserzionisti).
Un comportamento consapevole può essere imprevedibile, ma solo nel singolo. Sui grandi numeri gli algoritmi misurano, catalogano e incasellano, e lo fanno molto bene - ma questo lavoro si è sempre fatto. Oggi è su più larga scala, e su un contesto differente. L'aspetto importante è che gli algoritmi non "leggono nella mente", esattamente come non lo facciamo noi. E dopotutto non ha poi così tanta importanza, perché la mente non è un "oggetto" sigillato che si prende e si legge; non agisce isolatamente, a volte è inaccessibile perfino a noi stessi. Si esplicita invece quando agiamo, e nel contesto, e le componenti delle emozioni, dei sentimenti, della memoria, dei valori, producono senso e significato al nostro pensiero - e magari in quell'attimo si chiariscono anche a noi...
Il problema allora non è tanto il fatto che quello che si scrive sui social sia letto o scandagliato da altri, e poi utilizzato dal marketing o dalla politica. Questo, come dice l'ormai celebre Marco Montemagno, si sapeva già da un pezzo: la vendita dei dati è il business delle piattaforme, e l'analisi psicometrica sui social è l'ultimo tassello di un modello che - per esempio - in Italia ha esempi notevoli. Il problema casomai è sapere la reale "accuratezza" che questi dati contengono, avere la consapevolezza di quel che si scrive e, soprattutto, di ciò che si vuole leggere.
"Ci sono cose che non ti sembrano collegate. Ma a un certo punto le colleghi e tutto ha un senso", dice Cheryl in The Secret Life of Walter Mitty (il remake non è un gran film ma contiene alcune buone intuizioni).
A volte metto insieme alcuni elementi per trovare un pattern, un modello di senso. Steve Jobs incentrò il suo famoso discorso di Stanford del 2005 sul concetto dei connecting dots, e che è possibile farlo solo guardando indietro. È così, e a volte ci riesco bene, a volte meno. In molte occasioni quest'anno mi è stato possibile unire i puntini per vedere un disegno più grande, ed è stato forse l'anno in cui è accaduto più chiaramente.
Non per tutti è così, o non per tutte le cose (il tema della narrazione personale e collettiva è un leitmotiv delle mie ricerche - quindi il pippone è assicurato). Se guardo ai racconti di amici, amiche, ex, o colleghi, mi accorgo che per alcuni non è facile unire i puntini e vedere un "disegno". In alcuni casi non si dà importanza a cose che invece forse avrebbe senso connettere. In altri casi ci si fissa in una narrazione che apparentemente ha un senso, ma che non connette le cose "giuste". Spesso non diamo spazio a ciò che è doloroso, perché non lo vogliamo vedere. Così ci raccontiamo una storia, ma i puntini non si connettono o manca sempre qualcosa...e il disegno non appare.
L'ultima spunta della mia lista è di questa categoria: è stata una perdita che non capisco. Posso aggrapparmi al motto di un poeta, raccontarmi che è servita a farmi crescere, ma la verità è che dopo tutti questi anni non riesco a trovare un senso a questa storia - ma forse ha ragione Vasco: un senso non ce l'ha. Niente puntini da unire, niente pattern.
Nel collegare le cose, c'è una focale personale e una più estesa.
Nella focale personale posso dire che un pattern riconoscibile è stato sicuramente l'ambito di studio e approfondimento sui temi che erano di mio maggior interesse: la ricerca sui processi digitali dei social network e l'insegnamento. La possibilità offerta dalla laurea in scienze umanistiche, unita a quella in ingegneria informatica, mi hanno dato delle basi su cui poter configurare un percorso di crescita professionale in questi due ambiti. Ho visto come tutto quello che avevo fatto è servito. Chiaramente per ottenere questi risultati è servito anche lavorare sodo, ma c'è un filo conduttore che lega le cose del passato - anche apparentemente sbagliate (come la laurea in ingegneria, appunto) - a ciò che ho fatto oggi. Quelle competenze e quegli studi, adesso, acquistano senso. Ecco perché quando sento i miei amici non dare spazio all'esperienza mi viene da dirgli "credimi, non è inutile". Eppure so già che non mi crederanno. Anche io faccio fatica a volte a riconoscere le esperienze, specialmente quelle dolorose e senza senso. È un lavoro continuo, che bisogna imparare a fare con un metodo. Spesso ci si trova spiazzati, non riuscendo a rileggere la propria storia personale sotto diverse prospettive, e con uno sguardo diverso.
L'aggettivo faticoso si riferisce all'insieme delle cose che sono accadute in un solo anno solare, e che sono state davvero tante. Belle (la maggior parte), ma anche faticose perché ho dovuto rivedere quasi tutti i miei modelli di lavoro e studio. Sembra niente, ma è come cambiare testa o quasi, e dopo i 45... diciamo "una bella sfida" (un termine che fa subito pensare all'odioso linguaggio da marketing). Sfide complicate, perché verso la fine dell'anno sono successe delle cose difficili da gestire (e siamo al terzo aggettivo), di cui non mi va molto di parlarne. Dalla apparentemente semplice distorsione al polso che invece forse è qualcosa di più, alle persone importanti che si sono allontanate dalla mia routine per motivi di lavoro e di obbedienza e mi mancheranno...
Comunque, siccome non sono quel tipo di persona che sta ferma a lungo né che fa bene tutto, anzi*, a gennaio partirà la mia newsletter, che in un guizzo di fantasia ho chiamato LGPost. Sarà settimanale e basata su ciò che la piattaforma Paper.li pesca dai feed social che leggo (Twitter, cui si aggiungeranno Facebook, Linkedin, ecc.), più qualche articolo che segnalerò io direttamente. Se vi va di iscrivervi, mi fa piacere.
* Ai tempi di Splinder scrissi un piccolo elogio dell'equilibrio; oggi purtroppo è il massimalismo ad andare di moda, e su Medium furoreggiano gli articoli contro la mediocrità. Forse dovrei ritrovare quel post..
]]>Il 18 maggio ho conseguito la mia seconda laurea, in Scienze dell'informazione, della comunicazione e dell'editoria all'Università degli Studi di Tor Vergata. Ok, c'era già quella di ingegnere informatico ma questa è stata la laurea che ho sentito più mia: quella "vera", se così si può dire. In questo percorso ho trovato un felice connubio sia professionale, su tematiche che seguo da alcuni anni - sociologia della comunicazione, ma anche la mia antica passione: psicologia - sia soprattutto umano, incontrando persone straordinarie. Devo gratitudine a chi ha avuto la pazienza di seguirmi con puntuali consigli e necessaria strutturazione delle mie (tante, troppe) idee, in un lavoro che ha poi portato alla stesura di una tesi originale, del cui oggetto di ricerca, i «cluster digitali» scriverò - auspicabilmente presto - in un articolo a parte. È stata insomma una bellissima esperienza, faticosa e arricchente, che probabilmente proseguirà (nell'ambito dell'insegnamento, da cui il titolo).
Perché ne parlo qui? Per un paio di motivi. Il primo è tenere traccia sul blog di un evento per me importante. Dal primo post sono passati esattamente quindici anni (era il 2002) e già nei primi dieci di cose ne erano successe: ogni tanto mi capita di rileggere cos'è cambiato intorno a me, e anche come sono cambiato io, e il blog a mio avviso rimane ancora il posto migliore per fermare qualche esperienza e concetto.
Il secondo motivo è mettere a fuoco qualche elemento che ho tratto da questo percorso di studi. I temi di fondo che ho riscontrato sono sostanzialmente tre:
1 - Cambiare quando non va. Dopo la felice esperienza nella Nice (dal 1998 al 2004), dove avevo portato le mie esperienze e competenze degli inizi, mi sono trovato a lavorare per alcuni anni in Telecom Italia, e successivamente in una società di consulenza e system integration, e come programmatore in un team romano tra i più validi e produttivi che abbia incontrato. Eppure... è stato proprio in quell'occasione che ho avuto la crisi più dura: alla fine del 2010 mi sono reso conto che la programmazione, e in parte anche il Web development non erano più la mia strada. Non era solo un problema cognitivo (i dolori di stomaco mi affligevano da ormai un paio di anni) ma ero cambiato io, e dagli anni dell'esordio editoriale a quelli dell'ingegneria del software i miei interessi si erano spostati sempre di più su altre tematiche. Usavo ancora gli strumenti "del mestiere" come Eclipse, configurandolo alla perfezione per il Php e il versioning SVN, ma l'esperienza diventava sempre più terribile.
Nel 2011 ho quindi preso un anno sabbatico e ho cercato di capire cosa non andasse in me: avevo una laurea in quel ramo ed ero programmatore da anni, quindi era molto difficile riconfigurare (per usare un termine congeniale) un percorso professionale avviato, anche se in crisi. Ricordo come quel periodo fosse orribile.
Rileggendo quell'esperienza posso dire invece che è stata la fase più utile. Dovevo staccarmi da un mondo che non era più il mio, per capire che il mio mondo era un altro. Verso la fine di quello stesso anno capitò un evento di quelli che ti cambiano la vita: Giovanna Abbiati, con cui poi avrei fatto cose belle e importanti, mi chiamò per chiedermi se ero disponibile a insegnare nel nascente Master in Comunicazione e New Media all'Ateneo Regina Apostolorum. Avevo già tenuto dei corsi di programmazione, ma in strutture piccole e con poche persone. Si presentava un'occasione per un salto qualitativo e per mettermi davvero alla prova. Risposi di sì, con qualche timore ma anche molta motivazione. Proprio nell'Ateneo ho scoperto quella che, con un po' di prosopopea, ho chiamato la mia "vocazione all'insegnamento", ed è stato davvero una rivoluzione, anzi l'inizio del cambiamento. Negli anni successivi ho realizzato un percorso formativo sui temi dei social media, che come early adopter conoscevo bene, insieme alle competenze digitali che come tecnico portavo in dote, riuscendo a coprire i molti argomenti nel numero prefissato di ore (sforando un po'...). In quel periodo ho scoperto che trasferire le mie competenze era sì faticosissimo ma anche bellissimo, e che insegnare è un'avventura che ti impegna a capirne di più, a informarti di più, a saper ascoltare di più e ad imparare, molto, dagli studenti e dai colleghi. È stato un salto che ha poi portato alla riconfigurazione (arieccola) del mio percorso professionale: perché a quel punto avevo capito che il rapporto con l'informatica e la telematica era cambiato e che quello che avevo studiato e imparato lo dovevo riorganizzare per poterlo trasferire ad altri, che l'avrebbero usato in modi diversi e nuovi. Da quell'esperienza peraltro è nata anche quella grande iniziativa che è stato il TEDxViadellaConciliazione, nel 2013, di cui proprio in questi giorni si riparla per l'intervento che Papa Francesco, che allora era stato appena eletto, ha tenuto al TED di Vancouver ad aprile di quest'anno. E molte altre cose che alla fine hanno consentito di capire che l'ambiente dell'insegnamento poteva essere una strada mia.
2 - La formazione continua (soprattutto in tempi di analfabetismi). Quando si esercita una professione come l'ingegnere, o il medico, o l'architetto, ci si dovrebbe tenere continuamente aggiornati. In realtà nell'informatica è palese, ma nella mia esperienza la stessa cosa vale per quasi tutte le professioni qualificate. È un problema molto sentito, perché non sempre è possibile frequentare corsi (se non ci pensa l'azienda presso cui si lavora, bisogna provvedere da soli, per non parlare del giusto tempo da dedicarci, gli argomenti da scegliere, ecc.), e i temi tecnologici - come detto - sono fortemente "sotto pressione". Non ho usato il termine pressione a caso: talvolta parlo con amici che svolgono professioni in ambiti molto diversi, come ad esempio psicologi e psicoterapeuti, ma anche teologi, e anche in questi campi l'aggiornamento è divenuto imprescindibile. Per rimanere nell'esempio, solo in psicologia negli ultimi vent'anni è cambiato quasi tutto: molti dei modelli che fino agli anni Novanta andavano bene, oggi sono sottoposti a profondi processi di revisione. Questo accade grazie alle nuove scoperte nel campo delle neuroscienze e della psicoterapia. Tuttavia, è chiaro che chi ha studiato in quegli anni, oggi si trova a dover affrontare un percorso di riqualificazione complesso e a volte neanche ben chiaro (ci sono decine di modelli e scuole diverse...). Lo stesso discorso si può estendere, come si diceva, ad altre professioni. Ora immaginate cosa voglia dire quando bisogna insegnare qualcosa, in uno o, come nel mio caso, in più campi disciplinari contigui: l'aggiornamento formativo non deve solo essere continuo ma il più possibile diversificato e approfondito. Così ho capito che se volevo essere un insegnante valido dovevo colmare alcuni gap che nel tempo si erano evidenziati, nell'ambito delle scienze umane. Come ingegnere e come esperto del Web ero coperto dal lato tecnico, e con la rivista avevo approfondito alcune tematiche sulla comunicazione e sull'editoria, ma approfondire in modo più strutturato queste tematiche era diventato improcrastinabile. Ecco allora che nel 2014 è maturata la scelta di intraprendere un percorso di studio nuovo, che mi ha portato poi a conoscere la realtà di Tor Vergata, dopo aver selezionato l'offerta delle due altre università pubbliche romane, come la più confacente a quello che stavo cercando. Lì ho trovato persone straordinare, a partire dalla mia tutor che ha ritagliato "su misura" un piano di studi poi rivelatosi ottimale, alla mia relatrice che ha affrontato e strutturato il tema della mia ricerca nel momento stesso in cui lo stavo chiarendo a me stesso.
Da questo percorso di formazione impegnativo ho tratto almeno due lezioni importanti: senza una cultura a largo spettro, che unisca sia il lato più tecnico (nel mio caso le scienze dure) che quello umanistico, non è pensabile essere un buon formatore. Tra l'altro, ho verificato anche quanto sia importante il processo di approfondimento culturale proprio per poter leggere la complessa realtà che ci circonda. Purtroppo, approfondendo le mie ricerche - anche per la stesura del lavoro finale - mi sono reso conto di come il nostro Paese, da questo punto di vista, sia molto molto indietro. Non mi dilungo negli esempi - neanche credo ci sia bisogno di farne: ma tra analfabetismi digitali, "funzionali" (che sono però sempre da definire nello specifico) e di ritorno (quando si smette di studiare e si iniziano a perdere quelle conoscenze e competenze che si erano acquisite con gli studi), la situazione è drammatica, e c'è molto lavoro da fare.
3 - Le dinamiche dei social network. Si potrebbe cominciare col "fanatismo che corre sulla rete", e credo sia esperienza di tutti averlo incontrato in qualche discussione online. Tuttavia la situazione oggi si è molto complicata. Proprio sulle dinamiche distorsive dei processi digitali, evidenziate dai social network, si è concentrata la mia ricerca negli ultimi anni. Ci sono fanatismi religiosi, storici, c'è un fanatismo politico, sociale, in generale una narrazione ideologica che vive di pseudo-verità fin da tempi non sospetti, come si suol dire. Ma è soltanto quando queste ideologie si saldano con le dinamiche dei social network che il discorso cambia completamente: le narrazioni distorsive si amplificano e si rinforzano in modalità che fanno fare il salto di qualità a quello che prima era confinato a un ristretto novero di persone - vuoi perché poco informate, vuoi perché poco propense ad allargare i propri punti di vista. Da qualche anno (generalmente si situa dal 2009-2010, quando la diffusione dei social media è divenuta pervasiva) centinaia di migliaia - e milioni - di persone si trovano a condividere narrazioni comuni in un modello di diffusione nel quale gli algoritmi hanno una parte preponderante. Pensando di favorire i gusti degli utenti, infatti, i vari filtraggi effettuati dalle piattaforme fanno vedere quello che è ritenuto gradito all'utente ─ spesso non sbagliando. L'effetto è una sorta di loop: le persone effettuano delle scelte, selezionano per prime fonti e contenuti alla ricerca di temi specifici che confermino credenze e preconcetti (inclusi bias e quant'altro), e gli algoritmi iniziano a filtrare i contenuti presentando sempre di più quel tipo di contenuti. A partire dalla filter-bubble, individuata nel 2011 da Eli Pariser partendo dalla personalizzazione dei risultati di ricerca di Google, ci si è accorti che il fenomeno distorsivo è diventato talmente ampio da produrre un effetto ancora più allarmante: il modello conversazionale si sta deteriorando in modo così rapido, rendendo le persone meno abili al confronto e al dialogo ma anzi più chiuse e refrattarie, che non si parla più di "bolle digitali" ma di vere e proprie «celle blindate» (Luciano Floridi). È un processo noto specialmente agli addetti ai lavori, ma che nel 2016 è salito alla ribalta per le elezioni di Donald Trump negli USA, e per il termine fake news usato un po' come il prezzemolo. Il problema della disinformazione e delle false notizie è stato messo a fuoco in particolare da un paio di grandi ricerche uscite negli ultimi mesi (soprattutto Anatomy of news consumption, pubblicato su Pnas a inizio 2017), che mostrano come conseguenza primaria del processo distorsivo l'estrema polarizzazione su temi specifici. Proseguendo nelle ricerche ho osservato qualcosa che rende il modello stesso fortemente aggregativo, innescando un disancoraggio tra esperienza e realtà (dove il racconto e la narrazione sono gli elementi comuni) che produce effetti evidenti: le elezioni politiche sono un esempio, ma i prodromi sono visibili già prima in molti luoghi della rete.
Queste tre tematiche hanno reso un percorso di studio e formazione ora più "chiaro", potendo approfondire in modo appropriato gli ambiti di comunicazione, sociologia, psicologia e storia. Quando si insegna, bisogna prima di tutto imparare: è una banalità se vogliamo, ma si può declinare in vari modi. Ho imparato (e sto continuando a imparare) a ragionare, ad esempio, in modo scientifico, che non è una cosa né facile né scontata. Uno storico può distorcere la verità se rinuncia ad approfondire i fatti per "far tornare i conti". Così quando si scrive qualcosa di scientifico - o comunque con un certo livello di rigore - bisogna abituarsi a dimostrare tutto quello che si sostiene, a collegare i fatti e le idee, e anche a metterle e mettersi in dubbio, se necessario.
Oggi è questo forse uno dei punti nodale di molte criticità interpretative: in un contesto informativo tanto ricco, distinguere le cose con il dovuto tempo e livello di approfondimento è una sfida per tutti: c'è un processo entimematico (di verosimiglianza) a cui l'utente è continuamente sottoposto, che richiede un lavoro di affinamento e selezione che implica a sua volta una capacità critica che perfino per gli "esperti", a volte, non è scontata né immediata; è un mix di intuito e capacità ed è complicato, realisticamente, per la gran parte delle persone riuscire a capire dove si fermano le opinioni o le fake news (spesso disseminate a bella posta) e dove comincia il «fatto nudo» che comunque, come diceva già Kelly nel 1955, non esiste. Potrei anche citare il famoso effetto Rashomon, per cui ad esempio quattro osservatori diretti di un fatto riportano quattro versioni diverse dello stesso: è un discorso complesso che vale la pena di affrontare. Il rischio, già in parte realtà, è di affidarsi ad enti terzi (dalle piattaforme digitali alle istituzioni) per decidere cosa leggere, vedere, cercare - in un processo di selezione che inevitabilmente non è trasparente, non può mostrare gli "unknown unknowns", ovvero le cose che non stiamo vedendo (concetto reso famoso da Donald Rumsfeld nel 2002).
Dunque, inizia una nuova sfida. Che partirà dal rimettere le mani sul lavoro fatto, intanto, per le necessarie correzioni e migliorie in modo da poterlo eventualmente diffondere con contezza. E poi pensando a un programma formativo, quando sarà il momento, sui temi suddetti. Sarà un impegno non banale, ma collaborare con persone con cui c'è una bella sintonia e uno scambio proficuo di stimoli e idee è una combinazione che mi attira e molto rara, nella mia esperienza.. Durante questi mesi non soltanto ho lavorato molto a migliorare le capacità di selezionare, collegare le cose, scriverle in modo corretto (soprattutto meno narrativamente) ma ho dovuto inventare, diciamo così, un metodo per raggiungere gli obiettivi che mi ero prefissato, e applicarlo: in altre parole, imparare a motivarmi da solo per portare a termine il progetto, però non "da solo", ma anche grazie al prezioso e paziente aiuto delle persone che ho avuto la fortuna di incontrare sul cammino.
Insomma, pensavo di essermi fermato, e si sono accumulate invece tantissime cose da fare. Nel corso di self-management all'Ateneo forse mi servirà qualche consiglio :-)
]]>(post in aggiornamento)
Come avevo scritto su Facebook, sto facendo una personale misurazione, senza alcuna pretesa scientifica, ma ad intervalli regolari, delle pagine Facebook dei candidati sindaci di Roma[1] - e di altri social network, ove siano presenti (ho aggiunto Twitter a partire dal 5/5) - nell'ultimo mese di campagna elettorale, per metterle poi in relazione con i voti reali presi alle elezioni. Nessuna rilevanza statistica perspicua, in particolare: soltanto vedere come evolvono le relative fanpage (al netto di eventuali strani "salti" di like) in termini numerici e confrontarle con i risultati del 5 giugno 2016 (ed eventuale ballottaggio del 19 giugno) e successivamente - se ho tempo - per un periodo di tempo più lungo.
Aggiornamento 02/05. Come si può notare da una prima analisi delle serie di dati fin qui raccolti, l'andamento di crescita è proporzionalmente lineare e sostanzialmente stabile: dall'inizio (28 aprile, quando la candidatura Bertolaso è stata ritirata), nessun candidato ha fatto riscontrare impennate di like sulla propria pagina Facebook. Da segnalare che alla rilevazione del 2 Giugno la pagina Facebook di "Arfio Marchini" risultava oscurata (vedi nota 4). Su Twitter l'andamento è quasi piatto, segno forse della diminuita importanza di questo social anche per rilevazioni di tipo elettorale.
Aggiornamento 10/05. Dopo il primo turno di voti l'andamento dei like FB cresce per Virginia Raggi molto più degli altri candidati, che rimangono sostanzialmente stabili. Da segnalare che la pagina Facebook del finto candidato "Arfio Marchini" è stata riattivata (vedi nota 4). In generale, come si nota facilmente, non c'è una stretta correlazione tra numero dei like FB e il numero dei voti presi dai candidati.
Aggiornamento 17/05. Ultima ricognizione sulle pagine FB e Twitter dei candidati prima del ballottaggio del 19 giugno. Come era lecito aspettarsi, le pagine FB e Twitter dei candidati esclusi dal ballottaggio sono sostanzialmente ferme alle rilevazioni precedenti (e non sono più riportate). Tra i candidati ancora in lista, invece, Virginia Raggi cresce di più rispetto al suo antagonista Roberto Giachetti sia sulla pagina FB sia sul profilo Twitter.
Prime conclusioni. Dall'esperimento si può notare che non c'è diretta proprozionalità tra numero di like/follower e numero di voti. I casi più eclatanti ed osservabili sono naturalmente sui "grandi protagonisti", cioè su grandi numeri: Giorgia Meloni (i voti presi sono quasi la metà dei like su FB), sia all'opposto con Virginia Raggi (i voti presi sono quasi il doppio dei like su FB), sia all'estremo anche Roberto Giachetti, che ha un numero di like su FB pari a 34K ma ha preso 320K voti (spiegabile anche con il ritardo insieme la sua scarsa presenza sul social blu prima di candidarsi sindaco).
P.S. Un grafico dell'andamento dei like sarà altrettanto interessante, appena trovo un po' di tempo per mettere tutto in un file Excel.
Di seguito: la classifica dei profili Facebook (attenzione: l'ordine è decrescente per ultima rilevazione dei like FB)
Candidato Sindaco (pagina Facebook[2]) |
28/04 |
05/05 |
15/05 |
22/05 |
02/06 |
Votazione I turno[5] |
10/06 | 17/06 |
---|---|---|---|---|---|---|---|---|
552K |
559K |
572K |
577K |
581K |
voti: 265K |
585K |
||
107K |
111K |
116K |
122K |
150K |
voti: 453K |
224K |
253K |
|
77K |
80K |
81K |
82K |
-- [4] |
-- | |||
38K |
40K |
41K |
43K |
45K |
voti: 141K |
46K |
||
17K |
19K |
21K |
24K |
30K |
voti: 320K |
34K |
40K |
|
Stefano Fassina[3]: |
24K |
25K |
26K |
26K |
27K |
voti: 57K | ||
Guido Bertolaso (ritirato) |
4K |
|
Di seguito, invece, la classifica dei profili Twitter (l'ordine è diverso rispetto alla graduatoria FB, e ricomprende Stefano Fassina che aveva subito uno stop per il ricorso poi accolto al Consiglio di Stato al 15/5)
Candidato Sindaco (profilo Twitter[2]) |
05/05 |
15/05 |
22/05 |
02/06 |
17/06 |
220K |
256K |
258K |
263K |
268K |
|
115K |
118K |
118K |
119K |
119K |
|
47K |
49K |
49K |
50K |
53K |
|
20K |
24K |
25K |
27K |
36K |
|
14K |
16K |
16K |
16K |
16K |
|
8K |
9K |
9K |
9K |
9K |
Di seguito, le istantanee delle pagine FB dei candidati - prese il 05/05/16.
Link utili: | Il Post: "Guida alle elezioni di Roma" | |
Elezioni amministrative 2016 (Comune di Roma) |
[1] trova l'errore..
[2] dati approssimati in migliaia.
[3] lista riapprovata dal Consiglio di Stato dopo decisione del TAR.
[4] la pagina Facebook "Arfio Marchini" non è risultata più raggiungibile (cfr. tweet) fino al 5 giugno
[5] Voto della coalizione. Fonte dei dati: Ministero dell'Interno.
(Il post è stato aggiornato dopo la pubblicazione)
(foto: l'algido ed inetto - dal punto di vista comunicativo - ex ad di Volkswagen M. Winterkorn)
Premessa
I diesel hanno fatto passi da gigante negli ultimi dieci anni, soprattutto dalla direttiva euro4 in poi.
Basta vedere per strada una Ford Focus Tdci, o una Mercedes Cdi, o ancora una Bravo Jtd dei primi anni 2000, per citare solo alcuni dei modelli più diffusi di turbodiesel ante-euro4: spesso fanno fumo nero dallo scarico, in determinate occasioni come le accelerazioni o le decelerazioni. E poi osservare un diesel di ultima generazione - euro5, che circolano dal 2009, se non si vuole prendere un euro6: nessuna sbuffata nera, ma soprattutto, rispetto ad un'euro3 l'abbattimento delle emissioni inquinanti è superiore all'80%: un abisso. La differenza è ancora più evidente nei piccoli centri, dove non c'è stato, come ad esempio a Roma (quando era sindaco Veltroni) il divieto di circolare introdotto per le auto più inquinanti. A volte quando vado nei paesi e nelle città più piccole, mi stupisco di come lascino ancora girare diesel che inquinano più di 10 furgoncini ante euro! Per non parlare dei pullman, ma qui andiamo fuori tema..
I motori diesel - per costituzione - sono ben più efficienti dei motori a benzina (è il motivo per cui, tra l'altro, consumano meno dei benzina): i turbodiesel di ultima generazione o comunque ben progettati possono arrivare ad un rendimento fino al 37-38%, mentre i migliori motori a benzina non superano il 26-27%. Il rendimento è la quantità di energia fornita dal carburante che è convertita in moto effettivo: il resto si trasforma in calore (attriti, sprechi, ecc.). Quindi: in un motore a benzina, 3/4 dell'energia finisce in calore (parte del quale va peraltro smaltito per non bloccare il motore stesso, attraverso il raffreddamento, che richiede energia) e solo il restante quarto è quello che viene effettivamente usato per muovere l'auto.
Gli inquinanti
Il problema è che il diesel inquina intrinsecamente di più rispetto ai motori a benzina, prima col famigerato particolato, che può essere di dimensioni piccole (PM10, il nerofumo), ma anche piccolissime (il temibile PM2,5 - particolato fine con diametro inferiore a 2,5 µm, un quarto di centesimo di millimetro, o il PM1, con diametro inferiore a 1 µm) le più insidiose per i polmoni. Poi c'è il problema degli Ossidi di azoto (NOx), principale motivo dello scandalo "dieselgate Volkswagen" di questi giorni.
Per ossidi di azoto si intende generalmente l'insieme di ossido e biossido di azoto anche se in realtà costituiscono una miscela più complessa, vedi in tabella 1.
(fonte Ministero dell'Ambiente)
Composto | Formula |
---|---|
Ossido di diazoto | N2O |
Ossido di azoto | N2O |
Triossido di diazoto (Anidride nitrosa) | N2O3 |
Biossido di azoto | NO2 |
Tetrossido di diazoto | N2O4 |
Pentossido di diazoto (Anidride nitrica) | N2O5 |
Il monossido di azoto si forma in qualsiasi combustione ad elevata temperatura, insieme ad una piccola percentuale di biossido (circa il 5% del totale).
Le più grandi quantità di ossidi di azoto vengono emesse da processi di combustione civili ed industriali e dai trasporti autoveicolari (l'ossido rappresenta il 95% del totale) anche se ne esiste una quantità di origine naturale (fulmini, incendi, eruzioni vulcaniche ed azione di alcuni batteri presenti nel suolo).
Rimanendo all'auto, gli NOx vengono in realtà emessi da tutti i motori a combustione interna, ma in particolare la loro emissione è critica nei motori diesel perché per il loro funzionamento con miscela magra questi ossidi non posso essere abbattuti con il normale catalizzatore ma richiedono un apparato specifico (ad oggi di due tipi: ad accumulo, più economico, che va pulito di frequente, e "SCR", più efficiente ma più costoso e complesso, che comporta un sistema di iniezione a monte del catalizzatore e di un additivo a base di urea, ad es. AdBlue)
Problema. Le limitazioni NOx sono molto più severe negli USA: i limiti lì sono del 50% più bassi rispetto a quelli europei (e già da noi sono abbastanza gravosi). Senza entrare troppo nel merito della questione, la sostanza del discorso è questa: per rendere i motori diesel "estremamente puliti" serve così tanta complicazione costruttiva che quasi diventa un arte da orologiaio rimanere dentro le specifiche di inquinamento imposte dai singoli stati. Basta un niente per starne fuori.
La cosa è resa più complessa dal fatto, concomitante, che i diesel degli ultimi anni hanno fatto passi da gigante anche a livello di potenza: un 2.0 turbodiesel di 15 anni fa arrivava si e no a 115 cavalli stiratissimi e fumanti mentre oggi veleggia intorno ai 150-180 cavalli senza uno sbuffo e con un consumo reale tra i 14 e i 18 km/l. Impensabile fino a pochi anni fa. Ma insieme a tanta potenza e tanta efficienza c'è, appunto, un'estrema complicazione; e le emissioni allo scarico sono diventate parte del problema. Allora forse in qualche passaggio qualcuno ha pensato di fare il furbo per non rischiare di mandare in fumo (...) il lavoro di ricerca fatto in tanti anni, e ha sbagliato. Lo scandalo di Volkswagen è partito da lì, e riguarda principalmente il motore 2.0 TDI, codice EA189, (anche 1.6) estremamente diffuso sui modelli della marca dal 2008 al 2013.
I consumi
Il problema, poi, è che i consumi dichiarati nei cicli di omologazione sono inferiori ai consumi reali: basta leggere qualsiasi prova su strada di Quattroruote per vederlo ma anche chi guida tutti i giorni la propria auto se ne rende conto. Questo perché il ciclo di consumo in omologazione è un ciclo blando, fatto sui rulli, con un modello base, con ruote di larghezza minima consentita, clima spento, servizi spenti, ecc. Un ciclo di consumo in condizioni d'uso reali con giro su strada darebbe (e dà, infatti), risultati molto differenti. Basterebbe già solamente che non fosse fatto sui rulli ma in condizioni reali di utilizzo. E infatti dal 2016 nell'Unione europea cambieranno i cicli di omologazione che includono sia gli inquinanti sia i consumi, con dei test diversi dagli attuali, mantenendo la standardizzazione necessaria.
Fino a qui abbiamo parlato dei "classici" motori a combustione interna. Abbiamo visto pregi e difetti dei diesel, cercando di evidenziare che comunque il progresso tecnico di questi anni è stato talmente grande da ridurre enormemente sia gli inquinanti sia i consumi medi, aumentando contemporaneamente le prestazioni. Anche i motori a benzina hanno beneficiato di progressi simili, con l'adozione dei piccoli turbo che consentono di diminuire la cilindrata (il famoso downsizing) e quindi avere minori consumi e di aumentare le prestazioni dei motori, soprattutto ai bassi regimi, con un buon valore di coppia, che sono le cose più importanti nella guida di tutti i giorni.
Vediamo le alternative.
A - Le Elettriche
Il diesel è un motore efficiente, ma come abbiamo visto, intrinsecamente molto inquinante. Il benzina lo è meno, ma comunque inquina.
Tuttavia, sostituire tout court, come alcuni sostengono, i motori attuali con motori elettrici, è velleitario. Per diversi motivi:
1) La distribuzione. Non ci sono le strutture per la ricarica diffuse come per i carburanti. Con un programma pluriennale e standardizzato a livello sovrannazionale, potrebbe essere possibile convertire ed usare parte della rete elettrica esistente per creare delle colonnine di ricarica diffuse. Ma comunque ci vogliono anni. E non è neanche pensabile di usare il contatore domestico per caricare tutte le notti la propria auto. Non è un cellulare, e la bolletta ne risentirebbe. Ci sono dei contratti specifici che si possono stabilire con Enel per montare prese speciali ad alto amperaggio, e allora il discorso cambia, ma i costi sono ancora alti (potrebbe convenire, invece, a chi ha impianti fotovoltaici in casa che producono elettricità in sovrappiù).
2) Scarsa autonomia. Attualmente l'autonomia media di un auto elettrica è di circa 200-250 chilometri nella migliore delle ipotesi e con una guida economica. Troppo poco per stare tranquilli: e infatti anche la più avanzata delle auto elettriche attualmente vendute, la BMW i3, ha come optional il range extender ovvero un piccolo motore tricilindrico a benzina che si attiva nel caso serva ricaricare la batteria.
3) Sono più costose. Paradossalmente proprio l'ottimizzazione e l'efficienza raggiunta dalle auto "normali" le rende acquistabili a prezzi concorrenziali. Un'auto elettrica pura come la suddetta BMW i3 può arrivare a costare il doppio o addirittura il triplo di un'auto di classe media paragonabile. Di fatto, in mancanza di robusti incentivi statali, non è economicamente conveniente (ovvero, non raggiunge il punto di pareggio con le altre auto) l'elettrica rispetto alle altre pari di gamma. Il caso di riferimento in tal senso è quello di Renault, che da qualche anno ha sviluppato una gamma di auto elettriche pure (alcune partendo da un foglio bianco come la Zoe, ad esempio) che, però, non ha riscontrato i risultati di vendita sperati.
4) Inquinano meno? Loro sì, ma la produzione di energia per ricaricare le batterie proviene ancora in maggioranza da carburanti fossili e da centrali nucleari, che sono entrambi tra i peggiori e più inquinanti metodi attualmente in uso per produrre energia. Il che rende il conto in perdita. Cioè alla fine della fiera non è che usando elettricità per ricaricare la tua auto invece di un pieno di benzina, hai aiutato molto l'ambiente, perché quelle energie vengono prodotte in modo identicamente inquinante. Lo hai aiutato, un pochino, perché inquini meno tu allo scarico. (ma se vicino a te c'è un simpatico signore con un'Alfa 1.9 turbodiesel e centralina modificata che quando parte crea una nuvola nera, ti ci vorranno dieci anni di guida ibrida per riequilibrare il conto..)
A parte le battute... Le elettriche sono sicuramente nel futuro dell'automobile, ma non col sistema di produzione dell'energia che c'è oggi.
La soluzione è far generare l'energia elettrica da fonti rinnovabili: energia solare, in primis (ad esempio con distributori di energia elettrica a pannellamento fotovoltaico sul tetto o nelle vicinanze, oppure da parchi eolici). Solo a quel punto l'intero ciclo è realmente pulito e non ci si prende in giro facendo finta di rispettare l'ambiente.
B - Le Ibride
Ibrido significa che nella stessa auto convivono un motore elettrico ed uno a combustione interna: in generale è quest'ultimo a spostare la macchina nella maggior parte delle volte in cui è richiesta maggiore potenza, mentre nelle partenze cittadine il modulo elettrico può risultare sufficiente. Ma tale soluzione, che sembra efficiente, in realtà non lo è molto: il peso aumenta, e la complicazione costruttiva anche. Ci sono meno inquinanti in giro sicuramente (perché, a parte il motore elettrico, il motore delle ibride è in genere a benzina), ma è una soluzione "ibrida", appunto, cioè non risolutiva: il solo motore elettrico non può sostenere l'eterogeneità di situazioni nelle quali si trova a doversi muovere il veicolo, e quindi viene "aiutato", e ci sono due motori invece che uno, con tutti i problemi anche di manutenzione che ciò comporta. Il meccanico di fiducia probabilmente non potrà metterci le mani (anche per il rischio dovuto al più alto voltaggio).
Questa tipologia di auto è adatta a particolari categorie di utenti, ad esempio chi fa primariamente percorsi cittadini (non è un caso che sia molto diffusa tra i tassisti), mentre non lo è per chi la usa solo in autostrada o percorsi extraurbani, dove funzionerebbe prevalentemente, il motore termico.
Inoltre, anche le ibride hanno il problema - sebbene minore - di un costo più alto di acquisto. Dove le ibride sono veramente diffuse (cioè con percentuali di vendita sopra il 15% del totale) è in alcuni paesi del Nord Europa (ad es. la Norvegia) dove gli incentivi statali sono sostanziosi e rendono il prezzo d'acquisto sostanzialmente identico alle equivalenti a benzina o diesel.
C - A Idrogeno
Sicuramente è una tecnologia molto promettente, ed è il gas più pulito che ci sia. Presenta però pro e contro ancora più problematici delle ibride:
Pro
Non ci sono problemi di autonomia: la Toyota FCV (vedi sotto) può percorrere quasi 700 km, ed anche il rifornimento è sufficientemente rapido (può essere fatto in meno di 5 minuti rispetto alle ore che richiedono le elettriche). In California, paese da sempre all'avanguardia nel settore della ricerca e dell'inquinamento, sono già operativi diversi distributori e altri dovrebbero aprirne nei prossimi due anni.
L'industria giapponese crede molto in questo carburante: lo ha dimostrato con il primo modello di serie al mondo, la Toyota FCV, o con la Honda FCX, ed altre arriveranno. Le vetture ad idrogeno funzionano benone, anche perché sono a tutti gli effetti delle auto elettriche che invece di incerte e poco capaci batterie hanno il serbatoio dell'idrogeno ad alta pressione e lo stack che lo trasforma in corrente elettrica.
Contro
1) La gestione. L'idrogeno deve essere compresso a 7-800 bar e tenuto a temperature bassissime, nell'ordine dei -260 gradi, costringendo così a strutture e materiali complessi e costosissimi per il suo utilizzo sull'automotive.
2) La distribuzione. Attualmente non esiste. Distribuire idrogeno richiede una struttura ad-hoc attualmente esistente solo in poche nazioni come il Giappone, la California, ed in Germania.
(Non solo, in Italia sarebbe comunque impossibile la commercializzazione perché una norma attuale limita la potenza di accumulo nei serbatoi a 350 bar)
3) La sicurezza. L'idrogeno deve essere stivato e portato appresso (le fuel cell, che servono poi ad alimentare il motore elettrico che ne sfrutta l'energia). Ma in caso di incidenti con fortissimi compressioni meccaniche o temperature altissime, non è ancora chiaro cosa potrebbe succedere.
4) La produzione. Di nuovo, se l'energia usata per produrre idrogeno viene creata attraverso combustibili fossili, ci stiamo ri-prendendo in giro da capo. Se l'idrogeno è invece creato dall'energia solare siamo nel giusto e nel buono. Ma non è tutto così semplice.
Insomma, a parte le politiche svolte dagli Stati, e dai volumi in cui queste vetture arriveranno sul mercato (esperti Usa dicono che per viaggiare l'equivalente di quello che si riesce a fare con un gallone potrebbero bastare tre dollari), anche l'idrogeno non sembra una soluzione a breve termine, come l'elettrico. E fra i manager c'è chi non ci crede, soprattutto fra chi ha puntato sull'elettrico, in primis Carlos Ghosn (grande capo di Renault-Nissan) ed il genietto Elon Musk, fondatore della Tesla.
E' molto probabile che nel futuro, posso azzardare nei prossimi 30-40 anni, le tre tipologie di propulsione conviveranno, quindi avremo ancora motori a combustione interna, Euro6, 7 e così via, ibride utilizzate magari in città o elettriche per i percorsi urbani, e infine idrogeno per grandi progetti automobilistici che ora ci appaiono futuristici ma che fra 10 anni potrebbero non esserlo affatto.
Chi vivrà (a lungo) vedrà!
]]>In questi anni di trasformazione (per me) ho capito che sono davvero pochi quelli che comprendono il valore della fede, della sequela di Cristo, che capiscono cosa vuol dire farsi prossimo, accogliere i cambiamenti, anticipare i tempi invece di riportare indietro l'orologio della storia.
Sono molti invece quelli che vivono confortevolmente in schemi, ideologie, proiezioni, e soprattutto blindature mentali nelle quali trovano conforto, e conferma dai loro pari che, sbagliando, si rifanno a schemi apparentemente invalicabili e superati.
]]>Di fronte alle continue critiche rivolte da alcuni miei amici "cattolici" (o gattolici come si evince da una peculiare ironia sulla rete che parte dal termine in inglese catholics e l'amore per i gatti), che mi spingono a riflettere spesso sul senso del livore di una parte del mondo cattolico contro Papa Francesco, mi sono deciso a scrivere queste mie considerazioni: un mix di valutazioni di comunicazione ed un po' di esperienza di fede, perché ritengo che quel mondo cattolico, semplicemente, questo Papa non lo sta capendo (secondo me perché non lo vuole capire, ma voglio essere buono).
Il Papa segue due binari comunicativi e agisce su due livelli.
Il primo binario comunicativo su cui Bergoglio opera è quello aperturista, quello delle omelie di Santa Marta, dei discorsi a braccio (ad es. sull'aereo o nei luoghi o contesti non istituzionali), e alcune frasi che sembrano "lasciate a metà" o poco chiare. Non sono poco chiare: sono chiarissime per chi le sa intendere. Questo canale comunicativo è per chi sa capire cosa c'è dietro il "non detto", dietro le righe. Bergoglio usa questo binario per far capire a chi deve capire, ovvero ad una certa parte del popolo cattolico, la direzione che vuole intraprendere nel governo della chiesa e nei cambiamenti che vuole apportare alla dottrina.
Perché, come è stato obiettato, non dice le cose chiaramente? Perché non dice che "giudicare tutti i gay malati è un'idiozia", perché non dice che "Medjugorje può diventare superstizione", perché non dice che "pensare che tutti i divorziati debbano andare all'inferno è da fanatici", per non parlare del negargli l'eucaristia - anche se magari hanno subìto il divorzio..?
E' ovvio: perché succederebbe un cataclisma dentro la chiesa e in una parte del popolo cattolico, in quella parte legata al vecchio schematismo dogmatico ed intransigente, o dove c'è sostanzialmente un muro di sbarramento. Già così lo accusano di essere un "comunista" o addirittura (cfr. Socci) di "non essere il Papa eletto" o di essere l'Anticristo (...). E tacciamo dei relativismi, degli irenismi, dei sincretismi. Le accuse dei pseudo-teologi e vaticanisti assortiti fioccano: non mi prendo neanche la briga di linkarle, perché a me danno anche un certo fastidio. Se a qualcuno interessa, basta leggere Magister, Dagospia, il Foglio (ad exemplum), il Giornale, Libero, Tempi, quotidiani o riviste di destra, o i siti tradizionalisti, alcuni dei quali da tempo stanno combattendo una battaglia personale contro il pontefice argentino. Sui social network uff.., è pieno di gruppi e di pagine, e ad insistere poi bisognerebbe dar ragione al semiologo Eco.
Torniamo quindi a noi.
Bergoglio, saggiamente, adotta la strategia che potrei dire della decantazione semantica, cioè lancia un messaggio forte (sapendo perfettamente di farlo, non è che gli capita così a caso) e poi lo lascia decantare senza aggiungere altro, in modo che si sviluppi una discussione ed un confronto. Lui sa cosa vuole dire, e lo sa benissimo anche chi lo ascolta ed è sintonizzato sulla sua stessa lunghezza d'onda. Per gli altri invece c'è l'altro binario.
Il secondo binario è quello della rassicurazione, o confermatorio, in genere alternato con il precedente. Ovvero se può dire che gli omosessuali, in quanto tali, non possono essere giudicati (e quindi mettere in discussione secoli di condanne e di ipocrisia, tra l'altro proprio in un ambiente a forte componente omosessuale - palese o latente), d'altra parte utilizza il canale comunicativo ufficiale per ridisegnare i confini della sua apertura e rassicurare, da una parte, il popolo cattolico che il Papa "dice le stesse cose", e dall'altra gli stessi pastori che non c'è un pazzo scatenato alla guida della chiesa universale.
I due livelli su cui agisce invece sono dedicati verso l'interno. Il primo livello è un invito ai teologi ed è una chiamata chiara e stringente ad un ripensamento della dottrina su alcuni punti chiave. Qui si svolge una battaglia senza pari e - si sa da fonti certe - molti vorrebbero un altro Papa o magari una restaurazione di un pontefice conservatore che riporti le cose esattamente com'erano. Senza capire che tutto il mondo è cambiato e che, così facendo, la Chiesa sarebbe destinata non ad essere contrastata ma abbandonata - perché in realtà è contrastata proprio per le posizioni di Papa Francesco. A tal proposito si vedano le reazioni all'enciclica sul clima dall'America più reazionaria, oppure quella dei politici di destra sulle aperture alle politiche migratorie e le sacrosante tirate di collo verso chi richiama sconsideratamente risposte violente contro chi sfugge alla fame o alle guerre..
Bergoglio invece crede nell'evoluzione intelligente ed adulta del mondo cattolico,senza sconquassarne le fondamenta, ma accogliendo le diversità e le novità che riguardano la persona, e preservando uno sguardo chiaro e limpido sulla società, anche quella telematica (In Laudato sì, parla anche dei social). Insomma, lo "sporcarsi le mani" del buon cristiano, che è l'indicazione del suo papato rivolta spesso a preti e laici, non è il vivere in un idealismo della dottrina cattolica con regole e obiettivi hegeliani irraggiungibili, ma sul terreno della realtà, della misericordia e del rapporto sociale tra fratelli che è la vera cifra del messaggio evangelico. E' una svolta importante rispetto alla triade "Giudizio-Colpa-Peccato" che appassiona molti predicatori contemporanei, ma la religione come sappiamo diventa pericolosa quando è staccata dalla dimensione e dall'esperienza spirituale.
Molta gente, i cattolici in primis, lo ama e lo accetta proprio per questa sua caratteristica, per il suo essere misericordioso e insieme pastore, per il suo amore chiaro e diretto verso la persona e il suo non voler essere appariscente e mediatizzato ─ la mediatizzazione è successiva, è operata dai media, non da lui che è l'esatto opposto.
In questa sfida a vari livelli, il guanto è lanciato principalmente verso i tradizionalisti e gli integralisti, che infatti ricambiano la loro simpatia verso questo Papa parlandone male (spesso in modo velato o sarcastico) su molti siti web o blog nella loro cerchia di sedicenti esperti. Il problema è che spesso si scambia l'essenza del messaggio con il particolare modo di viverlo, cercando errori nell'operato o nelle modalità di Bergoglio come se fosse naturale "guardare il dito invece della luna". In particolare, poi, si condanna tutto quello che secondo alcuni non concorda con le idee più tradizionali della Chiesa, come se fosse un monolite impossibilitato ad evolversi ed aprire lo sguardo sulle molte realtà diversificate dell'umano. Anche qui, esempi ce ne sono molti, e un buon punto di partenza possono essere le fonti del teologo Massimo Faggioli che dal suo profilo Facebook e Twitter spesso aiuta a capire con una rassegna stampa di respiro internazionale, prese di posizione e discussioni anche aspre nella chiesa universale.
Il secondo livello è la riforma interna che non fa più piacere della sfida teologica: tutti, chi più chi meno si erano adagiati nel difendere i privilegi che nei decenni si erano accumulati per gli alti prelati o per chi faceva operazioni di "finanza allegra". Bergoglio da questo punto di vista, nei limiti della sua comprensione di tali manovre e cercando di capire anche come funziona la Curia romana, vero ostacolo ad una decisa riforma in tal senso, cerca di mettere ordine e di far capire che "il vento è cambiato" anche qui.
Si è visto ad esempio sul caso dei preti pedofili o quelli indagati per corruzione sia su suolo vaticano sia fuori, e le ultime novità che indicano una chiara direzione.
Insomma, un'azione coordinata e a tutto tondo, estremamente faticosa ma per la quale qualsiasi cattolico è chiamato a dare pieno supporto, e non a criticare senza capire.
Ma è sicuro anche che non andrà tutto bene: Papa Francesco sta incontrando enormi difficoltà proprio come tutte le persone che vogliono cambiare qualcosa. Anche se lui sa che i suoi "nemici" sono interni, è dagli "amici" che si dovrà guardare, cioè proprio da quei cattolici che apparentemente lo seguono ma - come ha recentemente detto una mia amica ferventissima cattolica - solo "fino a che non dice eresie". Io gli ho risposto: "E chi dovrebbe dimostrarlo, scusa?" E' stata zitta..
Seguire la regola abdicando dalla dimensione spirituale - e di fratellanza universale - non è fede cristiana, è stare dentro uno schema rassicurante. Eppure lo spirito evangelico ed i sentimenti con cui affrontare le cose nella dimensione di fede sono state tramandate da qualcuno vissuto molto prima di noi. Non è per niente facile, ma Bergoglio sa, per primo, che molti sono convinti che il "buon cristiano" sia quello che va a messa e prega, mentre giudica il fratello e lo condanna, o critica il Papa magari con un forbito trattato teologico pubblicato a puntate su Internet. Una parte del mondo cattolico è così, ed è a questi che Francesco non può dire chiaramente "state sbagliando tutto". Spera e si adopera perché ci arrivino da soli, piano piano, capendo che qualsiasi regola o schema, fanatismo o dottrina sono secondarie rispetto alla persona ed alla sua sfera umana e spirituale. E lo fa con l'unico vero strumento del cristiano: la testimonianza.
E anche per questo, come dice il buon Enzo Bianchi, (ospitato dall'ottimo blog di Christian Albini), Francesco ha bisogno di molto sostegno.
]]>Il primo maggio si è inaugurato, tra ritardi e difficoltà ma comunque in tempo, l'Expo di Milano. Presente il premierissimo Renzi che ha voluto modificare leggermente l'Inno di Mameli con una personale reinterpretazione, sostituendo il finale "Siam pronti alla morte" con "Siam pronti alla vita". A seguire polemiche infinite e prese di posizione nette ed intransigenti, in puro stile italiano.
L'origine del "Canto degli italiani" e di quel riferimento alla morte risale al 1847: l'inno fu scritto, come noto, dal giovane studente patriota Goffredo Mameli, genovese, e musicato da Michele Novaro. Sebbene italiano, l'inno in realtà si rifà, in spirito e semiosi, alla marsigliese francese. Era ispirato, infatti, a ciò che stava succedendo in Francia con la Rivoluzione che prende il nome dal famoso motto di Liberté, Égalité, Fraternité e preludeva ai moti del 1848 in Italia. Dopo di questi, ed anche grazie alla sua orecchiabilità e al richiamo ai temi della liberazione e all'indipendenza dallo straniero (asburgici in primis), il successo dell'inno fu un crescendo, divenne popolare nel Risorgimento e soprattutto dopo la seconda guerra mondiale, tanto che diventò de facto l'inno d'Italia anche senza una legge (anzi, nel più puro spirito italiano, è rimasto inno provvisorio, e solo nel 2012 una legge ne ha decretato l'obbligatorietà ─ senza peraltro togliere la provvisorietà, non si sa mai).
E veniamo dunque al testo: come ogni storico sa, le cose e gli eventi accaduti nel passato non si possono giudicare con le categorie del presente ma vanno contestualizzati (parola magica che autorizza in genere a giustificare tutto ciò che di terribile è accaduto prima di noi, tendenzialmente con ragione). Il testo è un mix di patriottismo, riferimenti culturali, storici e letterari di non immediata comprensione e soprattutto è intriso di romanticismo, che all'epoca era in voga (anche oggi, ma sui danni dell'idealismo ne scriverò un'altra volta).
La retorica del testo è tutta incentrata sulla battaglia e sulla chiamata alle armi (in chiave di liberazione dallo straniero, contestualizzando ovviamente): nel ritornello e nella prima strofa, dove poi c'è il riferimento alla morte, c'è il tema della coorte (ovvero della decima parte della legione romana), il richiamo "all'armi", e poi la citazione a Publio Cornelio Scipione (nell'inno è in latino: Scipio), cioè al militare romano che alla fine della II guerra punica liberò la penisola italiana dall'esercito cartaginese, e che fu soprannominato "Scipione l'Africano". Secondo Mameli, il suo elmo è ora indossato dall'Italia che è pronta a combattere (ovvio) ed essere di nuovo unita (contro il suddetto straniero invasore). L'esaltazione della figura di Scipione sarà ripresa durante il fascismo con la produzione cinematografica Scipione l'Africano, uno dei colossal storici del tempo, en passant.
Siam pronti alla morte? Allora lo erano senza dubbio, per unire l'Italia; oggi temo molto meno, ma lo spirito patriottico ─ con richiamo alla morte ─ è stato in realtà modificato successivamente: dopo il 1861 ai monarchici quell'inno sembrava troppo rivoluzionario (Mameli era un mazziniano doc), mentre alle frange più anarchiche sembrava all'opposto troppo conservatore. Insomma, stranamente i primi italiani uniti erano già divisi anche su questo. Così, dopo la proclamazione del Regno d'Italia, l'inizio della seconda strofa fu cambiato, da "Noi siamo da secoli calpesti, derisi" a "Noi fummo per secoli calpesti, derisi", mentre nel ritornello venne ripetuta la frase "Siam pronti alla morte" con l'aggiunta di un roboante "Si!" in modo da auto-confermare eventuali dubbi (la psicologia positiva sarebbe arrivata solo un secolo dopo, ma noi eravamo già avanti, come al solito, senza saperlo).
Ed ecco che qui interviene Renzi con geniale sagacia, ma non solo sul testo: non si può disaccoppiare la coreografia comunicativa renziana dalla presenza scenica dei bambini. Sono i bambini ad essere inquadrati quando viene cantata la "variante" al ritornello e la strofa finale: le telecamere chiudono su di loro, e il commento di mia madre sancisce che l'opera renziana di revisione è riuscita: "Che carini!!". Fine del discorso: neanche io riesco a non apprezzare quell'inno così romantico: e poi siam pronti alla vita in effetti suona meglio di siam pronti alla morte..
Delle doti comunicative e di spregiudicatezza di Renzi si è detto di tutto e di più. C'è a chi piace, in generale a chi ha un carattere fattivo e concreto, e c'è a chi non piace, spesso chi è più legato alle tradizioni e a un certo modo di intendere la politica e la comunicazione: ma questo generalizzando molto, perché poi perfino Crozza ormai lo percula fin da tempi non sospetti. L'ultimo in ordine di tempo è stato il diretùr Ferruccio De Bortoli, che in un editoriale infuocato prima di lasciare la direzione del Corsera lo ha soprannominato "maleducato di talento".
Sul talento, non si discute. Forse FDB voleva ispirarsi allo smemorato di Collegno, ma tutto si può dire di Renzi tranne che non abbia inventiva e creatività, anche quando forse non è opportuno (ma la creatività è sempre opportuna e l'inventiva mai fuori luogo?). In fondo, solo dei monolitici reazionari potrebbero desiderare che nulla cambi, mentre noi italiani siamo più portati a fare in modo che tutto cambi affinché nulla cambi.
Ma anche ammettendo che cambiare l'inno sia la cosa più tremenda che si possa fare, uno stupro da inorridire facendo rotolare nella tomba di moto circolare uniforme il povero Mameli e il Novaro, non riesco a trovare così grave questo cambiamento, a meno che non si inquadri la cosa da un punto di vista strettamente segnico. Perché la sfida di matrice renziana non è una strofa cambiata, ma è il cambiare per cambiare, cioè il rischio di modificare solo le apparenze, le appartenenze e gli equilibri, ma poi lasciare le cose in sottofondo come stanno, rischio reale, credo molto più pericoloso di un inno reivisionato.
Neanche questa in fondo è una novità. Nei sistemi di potere (e quello italiano è solidissimo, nonostante le apparenze) la sfida al cambiamento di qualsiasi persona che lo conquisti, si infrange di solito negli apparati, un po' come quei tripodi giganteschi che si stagliano nelle barriere dei porti: inizialmente l'onda li travolge e li sopravanza, ma poi piano piano perde potenza mentre le seconde e terze file dei giganteschi pietroni alla fine abbattono anche l'ultima energia residua, in modo che il porto resti calmo, tranquillo, sereno....
Viviamo in una società, quella italiana, per certi versi mortifera, annegata nella corruzione di in una classe politica soggiogata ed asservita a un modo di agire mafioso (inutile citare Mafia Capitale, ché come romano è quella che più mi colpisce da vicino), a qualsiasi livello territoriale e politico, e una società derisa e calpestata, essa sì, perfino dai propri stessi appartenenti, una società profondamente litigiosa, intrinsecamente ideologizzata, e incapace di adottare un atteggiamento costruens ma ben preparata su quello destruens. Qualsiasi passaggio sui social network può testimoniarlo facilmente, nei modi vari per attaccare l'avversario, sputtanarlo, dimostrare il più classico degli sport italioti: "io ho ragione, tu hai torto". E se magari la ragione c'è (non sia mai che qualcuno affermi che la verità non sta mai tutta da una parte, peraltro) è ancora peggio! Indice e simbolo di una incapacità di accettare ed accogliere le differenze e ancor di più di trovare dei punti di accordo e di confronto (famosi quelli costruttivi, spesso citati e quasi mai applicati)..
Insomma invece di darcele di santa ragione ed essere pronti alla morte, oggi preferisco sentire dei bambini cantare di "esser pronti alla vita"...
]]>My entire life can be summed up in one sentence: things didn't go according to plan.
─ anonymous
L'inizio dei post che preferisco contiene una citazione che svela il senso, in modo ironico e semplice, ed è tutto chiaro. "La mia intera vita si può riassumere con una frase: le cose non sono andate secondo i piani"
E' una cosa brutta o bella? Secondo me, bella: non credo molto nella pianificazione. Parlerò di una scelta in un ambito totalmente diverso da quello in cui mi ero mosso fino a pochi anni fa, dell'incredibile sequenza di eventi che sono "andati a posto" da soli e che hanno portato ad un approdo apparentemente sorprendente, alla fine di un percorso di ricerca e all'inizio di una strada che mi ha portato gioia, novità, e, almeno in teoria, disegnerà un andamento alternativo della mia vita. E' un percorso arricchente ma che in fondo è un ritorno alle origini.
Ma che cosa è successo?
Da diversi anni, come chi mi conosce sa, vivo una specie di crisi professionale. Il fuoco per l'informatica era passato, non senza perplessità, e la passione, soprattutto, per la programmazione e la progettazione sembrava essersi esaurita o perlomeno arrivata ad un punto morto, dopo un percorso fatto di molteplici iniziative, ricerca e studi che aveva portato a diversi successi e a un mestiere durato anni. Ma ho capito che le mie passioni e i miei interessi si stavano spostando: sempre più passavo dall'approccio delle scienze tecniche a quello delle scienze umane. E' stata una presa di coscienza in realtà molto lunga, che ha interessato molti anni e non senza diversi ripensamenti.
Inizialmente avevo intrapreso un percorso di avvicinamento alla psicologia, uno dei temi che più mi interessava - anche perché la mia formazione era davvero carente sotto quell'aspetto: diciamo la verità, non ero portato per l'empatia o la capacità di avere una visione più approfondita su di me e sull'altro, né tantomeno all'interno della professione ciò era considerato un vantaggio. Quindi, di fronte all'incapacità di affrontare il mondo relazionale in maniera efficiente, da bravo ingegnere ho approfondito i temi che mi interessavano per cercare di capirci qualcosa, cosa che in effetti serviva. Nel frattempo, il mio campo di ricerca e competenza era sicuramente diventato la comunicazione (ambito senza dubbio ampissimo), e in particolare la parte relativa al rapporto con i nuovi media - in questo l'essere stato un innovatore prima con Beta e poi osservatore e ricercatore, approfondendo la materia e animando discussioni e progetti con molti attori e protagonisti dell'internet italiana era stato fondamentale.
Questo avveniva ancora qualche anno fa.
A partire dal 2004 si sviluppa l'interesse per i nuovi media e dal 2007 per i social e contemporaneamente per le scienze umane: è tutto connesso.
Fino al 2011 sono stato un ingegnere informatico "full": ho lavorato in Telecom Italia ed in altre società del settore facendomi un po' le ossa in campo tecnico, dopo la grande stagione pionieristica nella Nice, la società dove avevo fondato e progettato il network editoriale di Beta nel 1998 e negli anni successivi con annessi e connessi.
Eppure lavorare nel campo dell'informatica non mi stava piacendo più. Ma come mai, mi dicevo: "io sono questo", "la mia passione e il mio lavoro sono questi". Com'è possibile che il Luciano che passava notti intere davanti al pc fino a pochi anni fa, oggi era bloccato?
La questione è stata abbastanza complessa da risolvere.
Ero una persona abituata ad interagire principalmente in ambito tecnico, e anche piuttosto solitariamente, ma la parte di me relazionale era diventata non più comprimibile: lavorare nell'ambito tecnico significava continuare a mantenere la gabbia che mi stava stretta, in un contesto fortemente competitivo e un po' nerdiano. Peraltro il cliché dell'informatico in realtà era un po' appiccicato: seppur con un approccio, quello tecnico-scientifico, dal quale non potrò mai prescindere, l'ambito tecnico informatico era solo uno dei miei ambiti di interesse, e non era più al primo posto.
E' nel 2012 che cambia qualcosa: scopro la vocazione all'insegnamento grazie alla lungimiranza di Giovanna Abbiati, che fa partire il primo Master in Comunicazione e new media all'Ateneo Regina Apostolorum (e con la quale successivamente organizzerò il TEDx in Vaticano). Questa opportunità professionale, che mi darà anche grandi soddisfazioni personali (memorabili le tesine dei miei studenti che seguo una ad una con grande entusiasmo), farà però emergere ancora di più quello che sembrava un malessere, una pausa nello spazio della mia attività professionale.
Dovevo, in qualche modo, evolvermi e imparare. Dovevo fare qualcosa mettendo a frutto da una parte le conoscenze e quello che avevo imparato con l'insegnamento e dall'altra approfondire il collegamento tra le scienze umane, la comunicazione, e l'informatica. Ma come?
In questi anni ho avuto la fortuna di avere affianco delle persone straordinarie che mi hanno aiutato molto in questo percorso di trasformazione. Il buon neurologo, innanzitutto, che mi ha preso in carico quando ero nel pieno della crisi, poi il mio padre spirituale, il mio gesuita come lo chiamo io (provocando l'ilarità generale) che mi ha seguito e mi segue con una pazienza in odore di santità, e poi la psicoterapeuta che mi ha portato in qualche modo all'accesso al mio mondo emotivo in modalità nuove e inaspettate. Tre figure necessarie, probabilmente.
Che fare, dicevo? Le opportunità professionali - o le sfide, come si chiamano oggi - erano venute meno a causa di una politica a mio avviso miope dell'ateneo che aveva deciso di cancellare il Master in comunicazione gettando al vento un lavoro fruttuosissimo e pieno di impegno che aveva avuto un successo straordinario. Dopodiché c'era l'aspetto prettamente informatico: già, ma i miei interessi ormai si erano spostati sull'insegnamento e sulla formazione.
Proprio sulla formazione c'è stato molto lavoro di ricerca. Mi ero avvicinato anche al mondo del coaching, prima in modo critico, poi cercando di comprendere cosa c'era di buono e cosa invece poteva essere rischioso o semplicemente inadatto, pur con i miei limitati strumenti ma insieme appunto alle persone che nelle rispettive professioni mi hanno sempre dato un apporto fondamentale in questa comprensione.
Ricordo a tal proposito un bellissimo commento su alcune mie considerazioni di ordine psicologico che avevo riassunto alcuni mesi fa in un post dal titolo emblematico, Alla ricerca di senso (dalla psicologia al coaching e ritorno) dall''attuale vicepresidente dell'ordine degli psicologi della Lombardia: "Ce ne fossero di ingegneri come te!!". Per me fu un onore e in parte un sollievo, anche perché quel post fu duramente contestato da uno dei professionisti succitati di cui avevo totale stima, e che sicuramente aveva colto delle imprecisioni, che poi hanno portato ad un rimaneggiamento del post stesso.
Viene il tempo delle decisioni, e siamo al 2013. Essendo legato ancora allo schema professionale dell'ingegneria - e non volendo aspettare oltre per cambiare qualcosa - decido di prendere un (costoso) Master universitario internazionale in Management and emerging technologies, di ambito ingegneristico. Sembra fatto apposta per dare una svolta alla mia professione, e invece si rivela un errore madornale. Me ne accorgo solo dopo: tutti gli argomenti delle materie vertono su aspetti tecnologici e tecnici estremamente approfonditi, perfetti per chi vuole fare un percorso per lavorare in ambiti estremamente specialistici come il settore automotive, per esempio, ma non per me e non a 44 anni! Credevo che approfondire i temi delle nuove tecnologie sarebbe stata una strada coerente: mi ero sbagliato. Stavo prolungando lo stesso errore che avevo fatto con la prima laurea - e ora per di più tutto era di scarso interesse per me - quando il mio orizzonte si stava spostando invece sulle scienze umane e sulla relazione tra queste e le scienze dure. Non c'era niente in quel Master che facesse per me...Ma ormai la frittata era fatta.
Mentre sono devastato dall'errore fatto, nasce per caso, per una coincidenza provvidenziale, diciamo così, l'opportunità che mi farà intraprendere il percorso giusto: navigando sui siti universitari mi cade l'occhio su una laurea specialistica in Teorie della comunicazione in un'università privata, la Link Campus. Guardo gli esami, approfondisco gli argomenti e penso "che bello sarebbe poter fare questa. Ma chi ce l'ha 5 anni..."
Decido comunque di telefonare, più per sfizio che per altro, e mi risponde una gentile signora alla quale faccio qualche domanda. Ad un certo punto butto là una frase quasi senza pensarci: "Peccato che con la mia laurea non posso accedere a questa specialistica, sennò..". E dall'altro capo mi sento rispondere: "Chi gliel'ha detto, scusi?".
Come una scossa che ti attraversa quando incroci il sorriso della ragazza che avevi sempre sognato, la vita mi passa davanti e balbettando dico "Lei mi sta dicendo che posso accedere direttamente alla specialistica del corso in Teorie della comunicazione con la mia laurea?" - "Si, lei mi ha detto il suo curriculum, che è molto buono, lo valutiamo in sede di commissione ma sicuramente le posso dire che dal punto di vista accademico, con la riforma, non ci sono problemi".
"Grazie!" Appena termina la telefonata mi fermo un attimo, ed urlo: Si - può - fare!!
E' un momento di pura euforia e di fervente attività. A quel punto, una volta scoperto ed appurato che il percorso di unire le mie competenze tecniche con le scienze umane in un unicum accademico è fattibile ed in tempi umani, inizio a vedere i possibili percorsi specialistici nelle Classi di laurea in Comunicazione (sono diverse) di tutte le università romane. Telefono e mi informo, scarico brochure e indirizzi, vado a parlare con le responsabili didattiche, trovando disponibilità e professionalità. Ma ancora le cose non sono così semplici come sembrano...
Le tre principali università statali più una privata alle quali sono interessato, infatti propongono sì percorsi diversi - tutti molto interessanti - ma a delle condizioni: non potrei iscrivermi all'anno accademico in corso ma devo aspettare l'inizio dell'anno successivo, e nonostante il mio curriculum dovrei comunque dare alcuni esami della triennale, "per stare sicuri" in sede di valutazione. Inizio a scoraggiarmi ma insisto.
E' a questo punto che la magia accade.
Per scrupolo avevo scritto anche all'università statale più lontana da casa mia - che proponeva anch'essa un percorso didattico estremamente interessante - scusandomi per il fatto che avessi saltato le precedenti prove concorsuali per accedere alla laurea specialistica ed allegando un curriculum vitae e studiorum. Pensavo che non mi avrebbero neanche risposto...
Il giorno dopo invece mi risponde, in poche ma fondamentali righe una professoressa (che non smetterò mai di ringraziare) che mi annuncia che c'è un'ultima finestra concorsuale da lì a pochi giorni per entrare nell'anno in corso, e che sarebbero disponibili a un colloquio. Mi dà appuntamento alla mattina seguente, il suo giorno di ricevimento.
Ed è proprio lì che grazie alla lungimiranza e la disponibilità del collegio didattico posso coronare il sogno, è in quel momento che i pezzi del disegno iniziano ad andare ognuno al posto loro. Quando ci incontriamo, lei mi spiega che proprio quell'università sta promuovendo da alcuni anni un percorso multidisciplinare che cerca di mettere insieme ambiti di competenza diversi. Io sarei stato ottimo per questo approccio. Ed era proprio quello che stavo cercando - io e loro. Erano le persone con cui mi sentivo di poter intraprendere un percorso formativo finalmente coerente, anche se in realtà mi apparteneva da sempre: perché in realtà la Comunicazione era il filo rosso che mi univa fin dalle mie prime esperienze lavorative. Il commento più bello è stato il suo: "è davvero raro che una persona con una formazione tecnica si avvicini e approfondisca le discipline delle scienze umane, il suo è un percorso complesso ma molto ricco".
Da lì in poi è stato tutto un faticoso ma entusiasmante percorso di avvicinamento. Ancora ricordo quelle settimane tra gennaio e febbraio come una corsa continua alle scadenze: colloquio preliminare con docenti titolari, incombenze amministrative con problemi inaspettati (nell'altra università risultavo ancora iscritto!), preparazione del Piano di studi, integrazione del curriculum con testi per colmare le lacune (in storia, ad esempio!).
Arriva il giorno della valutazione del collegio didattico: il suo superamento, diventa l'occasione per conoscere persone straordinarie, grazie all'impegno della mia tutor formidabile e dalle vedute ampie, con cui abbiamo stilato il percorso personalizzato. Ricordo quel giorno anche perché chi ha esaminato ed approvato il mio percorso mi ha detto una cosa che reputo molto bella: io, un po' emozionato, cercavo di rompere gli indugi mentre valutava le differenze di Cfu (ovviamente tra i codici di Ingegneria informatica e quelli di Lettere e filosofia ci sono ben poche concordanze!) dicendole che "io sono molto motivato", e lei mi ha risposto "Anche noi!" con un bellissimo sorriso. Era fatta! Ero nel biennio magistrale (e nell'anno in corso!) di Scienze dell'Informazione e della Comunicazione.
Forse è vero, credo che sia difficile che si uniscano mondi così lontani come l'ingegneria e lettere e filosofia. Ma io in questi anni sono cambiato, l'informatica ormai mi va stretta, ed era tanto che inseguivo questo progetto, in realtà. Anzi, diciamo che è quello che avrei dovuto fare da subito. Ma, come si dice, meglio tardi che mai. E io sono in ritardo, in genere...
Man mano che vado avanti nei corsi e nei seminari di questa fantastica galoppata nella mia seconda laurea, ho imparato moltissimo. Ad esempio per l'importanza della multidisciplinarietà: ci sono sfere culturali che non si parlano, (Scienza) e (Filosofia), per dirne due che sono sotto gli occhi di molti, oppure (Tecnica) e (Letteratura), ecc. Molte persone, anzi la maggior parte, non mettono insieme due sfere distanti e c'è chi rimane tutta la vita confinato in una dimensione professionale senza volerne sapere di altre, ad esempio il Teologo che studia solo storia dell'arte e religione e non vuole saperne di metodo scientifico, o lo scienziato che studia solo il mondo tecnologico di sua competenza e non avverte nessuna esigenza di comprendere il trascendente. Viviamo nell'epoca della specializzazione, come noto.
Ma più si integrano le discipline e si esula dalla specializzazione e più si amplia il proprio orizzonte culturale, e più le cose iniziano ad apparire sotto luci diverse. E ciò che prima vedevi solo da un'angolazione, la vedi da molte altre....
L'impegno è gravoso - e c'è anche in qualche modo rinuncia in questo percorso - su questo non posso certo mentire: so che mi prenderà tempo e lo toglierà ad altri progetti, ma sono contento così. Molto contento.
* * *
]]> APPENDICE EPISTEMOLOGICO-PSICOLOGICA
Ripensando, nei giorni successivi, a quello che mi è successo mi è venuto in mente che l'editoria, in particolare, e la comunicazione sono stati i miei temi di interesse fin dagli esordi universitari, anzi addirittura al liceo. Ho fondato una rivista, un'agenzia di notizie, un network di siti e insomma per farla breve avrei dovuto immaginare che quella fosse (anzi, era) la mia strada. Ma non sempre nella vita uno fa le cose che si sente di fare e spesso si finisce per prendere altre strade, viottoli e sentieri che ti distraggono dalla strada maestra: così è stato per me. La passione per l'informatica ha preso il sopravvento, e, durante gli "anni formidabili" e pionieristici, invece di proseguire e curare il network che avevo creato, ho deciso che avrei dovuto concludere gli studi in ingegneria informatica.
Col senno di poi avrei scelto altro, ma in quegli anni non pensavo a quello che sarebbe successo di lì a poco: la crisi della new economy, i blog, i social..
La programmazione, ad esempio, ha smesso di interessarmi come all'inizio: sono sempre stato diffidente verso le novità come Ajax, jQuery e le nuove tecniche per manipolare i siti web (non parliamo neanche di flash et similia), mentre sono rimasto affezionato all'HTML puro e soprattutto alla versione 5, finalmente nel percorso finale di standardizzazione insieme al CSS 3.
Visto che sono in telematica da sempre pensavo che quella sarebbe stata la strada definitiva, ma ho avuto interesse e passione per tante di quelle cose che la parte "dura" dell'informatica ha finito per passare completamente in secondo piano...
E' del 2013/2014 la svolta. L'interesse verso le scienze umane era plateale ed innegabile, ma, dopo aver letto e approfondito diversi ambiti disciplinari, ancora non avevo le idee chiare. Sapevo solamente che volevo dare un volto ed una direzione a questo cambiamento in modo che si traducesse in qualcosa di concreto, che mettesse insieme esperienze, competenze, la passione e la professione, magari a fronte di un riscontro oggettivo. Utopia? Forse, ma volevo trovare una strada.
L'idea, inizialmente, era di orientarsi su una laurea del tutto nuova, e per un po' pensai addirittura di iscrivermi a Psicologia. Fortunatamente due persone nelle quali ripongo estrema fiducia mi sconsigliarono questo percorso accademico per una serie di ragioni: le due principali erano che per farla bene, perché sia un approdo veramente di utilità per gli altri e non semplicemente un approccio naïve per soddisfare sé stessi o giudicare gli altri, servono molti anni e un percorso formativo composto da laurea, specializzazione (e post-specializzazione), mentre la seconda è che proprio per la mia età e provenienza professionale questo non è qualcosa che "mi appartiene" ma più una curiosità intellettuale, legittima ma non tale da intraprendere ora e per me in un percorso ex-novo.
C'è un famoso aneddoto che ricordiamo sempre con alcuni cari amici ingegneri, che negli anni in cui i social erano all'inizio dicevano "Facebook non avrà mai successo", oppure "i social sono una fesseria", mentre io dicevo sicuro: "Facebook invece avrà un successo enorme e vedrete come cambierà la vita di tutti". Il tempo mi ha dato ragione eppure tornando indietro potrei dire che non avevo alcun dato che avvalorasse la mia tesi, anzi. Ma qualcosa dentro di me, quel livello sub-cosciente che chiamiamo genericamente intuizione, mi faceva accorgere prima degli altri dei movimenti che la società avrebbe osservato poi in modo scientifico o fenomenologico.
Il successo è un oggetto molto complesso e difficile da gestire: chi come me ha visto partire stupende esperienze che, però, sono venute troppo presto e tutte insieme può perdere dei pezzi per strada e disorientarsi alla ricerca di un modello ripetibile. Allo stesso modo ho sperimentato che non mi riesce bene stare nella routine.
In mezzo (un lungo mezzo) c'è stato anche un periodo difficile, per vari motivi personali, famigliari e di ricerca di senso (quella è una attività che non manca mai, ormai da decenni, nella mia attività cognitiva, e spero che non mancherà mai). A partire dalla lunga malattia di mio padre nei primi anni 2000 fino agli obiettivi scardinati e gli orari ribaltati dai suddetti problemi di stomaco che mi hanno attanagliato dal 2008-2009 in avanti..
Dove però c'è un fil rouge è in quella che per me è diventata una regola: senza imparare non riesco a stare. E dopo aver imparato metto a frutto e confronto e a quel punto provo a trasmettere, ad insegnare perché dall'insegnamento e dal confronto, specialmente se su materie verso cui si prova interesse e si ha competenza, non si può che uscirne accresciuti, arricchiti. Questa almeno è stata la mia esperienza.
Le domande chiave, però, che mi hanno fatto scoprire il percorso giusto le devo alla mia psicoterapeuta, che nei miei momenti di crisi insisteva chiedendo "cos'è che le dà gioia, che la fa sentire meglio?". Non è un'attività banale porsi questi ed altri interrogativi specifici in ambito professionale e lavorativo, perché aver trovato una strada coerente è anche il travaglio di aver scavato a fondo nelle proprie motivazioni ed emozioni e aver trovato quel filo che congiunge le passioni agli interessi cognitivi ed alle attività professionali, ed è un percorso ad ampio spettro. Anche il lavoro apparentemente più semplice o umile, ha dietro di sé sempre una motivazione, un senso costitutivo che magari neanche conosciamo. Ad esempio comunicare, scrivere, apprendere, insegnare, erano tutti elementi che erano parte costitutiva di me, ma che io davo quasi per accessori, per scontati! Come se la mia strada in realtà dovesse essere un'altra (era l'idealità che ancora sosteneva la mia scelta, ed anche il percorso segnato di una prima laurea, ingegneria, conclusa più per compiacere i miei genitori che il mio reale interesse). Invece vedendo ciò che erano le mie passioni e i miei interessi fin dai primordi del mio percorso formativo e lavorativo, ho trovato un arco, una coerenza ed alla fine un compimento in questo percorso, con questa seconda laurea.
Ma tutto questo non sarebbe neanche potuto accadere se prima non avessi fatto un lavoro ancora più in profondità. Aver compreso, cioè, ad un livello che chiamerei di consapevolezza intellettuale i miei limiti, le mie paure e le mie strutture mentali errate, raccontate, ridondanti e spesso invisibili. Questo è ancora molto difficile, perché per entrare nel livello emotivo sul quale ho iniziato a lavorare successivamente richiedeva un grande sforzo di destrutturazione preventivo. Ciò è stato possibile a partire dagli ormai famigerati dolori di stomaco con il percorso terapeutico portato avanti insieme al buon neurologo, che mi ha aiutato appunto, a partire da quei segnali così limitanti a togliere le impalcature e a capire meglio come funzionavo io, ovvero con quali meccanismi il mondo osservato si manifestava alla mia coscienza e soprattutto quali reazioni e relazioni portava nel mio modo di osservare. Era anche un mettersi profondamente in discussione, un "demolire" che non è stato certo facile, e che più di una volta ha portato ad un confronto anche aspro di idee e convinzioni.
Un lavoro molto lungo e ancora ben lungi dall'essere completo, anzi è quel tipo di cambiamento profondo di sguardo sulla realtà che non finisce mai di evolvere. Ancora oggi quando rileggo i miei appunti di quegli incontri trovo sempre nuovi spunti di applicazione, e di rilettura della realtà, in una luce che ad un primo esame non traspariva. E, devo dire, spesso c'è anche una mia personale reinterpretazione a conferma di quegli schemi secondo convinzioni che più mi appartengono.
Una volta che si sono compresi alcuni meccanismi e svelato ciò che uno si racconta della realtà (e - credetemi - questo lavoro senza l'aiuto di un professionista serio e preparato è davvero difficile), ciò che inizia a rivelarsi è la realtà stessa, depurata dagli infiniti metasignificati che senza accorgercene costruiamo sopra negli anni (dell'adolescenza e soprattutto dopo, nella post-adolescenza, quando siamo chiamati a cimentarci con un ruolo e delle responsabilità). Il processo è continuo, ma serve qualcuno che lo inizi correttamente e che indichi ciò che si trova al di sotto, nello strato sottostante a ciò che noi osserviamo e a cui diamo significato. E se questo qualcuno ci dice cose sbagliate, le cose si complicano. Né è raro il caso che le convinzioni personali di chi ci sta assistendo, sia egli uno psicoterapeuta, uno psichiatra, o uno psicologo, si sovrappongano alla terapia: per chi fa un lavoro su sé stesso, il "doppio lavoro", passatemi il termine, consiste proprio nel tenere separate queste convinzioni dalle indicazioni terapeutiche, e non è sempre semplice.
C'è infine un problema. Una mia amica psicologa dice sempre "noi impariamo veramente a capire meglio la realtà soltanto quando ci abbiamo già costruito sopra la nostra versione". Questa precomprensione è il frutto avvelenato di una cultura complessa come quella nella quale viviamo, dove ruoli, strutture, aspettative, ideali ed obiettivi sono mischiati, sovrapposti, e mediati spesso senza orientamento o con qualcuno che ci aiuti a sbrogliare la matassa - o che eviti di manipolarci e di creare false copie di questi obiettivi, ruoli, aspettative, ed ideali, magari anzi spesso creati inconsapevolmente basandosi su esempi pregressi o stereotipati.
In altri termini, scoprire sé stessi e il mondo è bellissimo, ma all'inizio è difficile farlo senza cercare qualcuno o qualcosa (sia essa un'ideologia, una persona, un ruolo, ecc.) con cui identificarsi. Dopo è ancora più difficile smantellare la struttura che abbiamo costruito, se questa si rivela poco adatta a noi o, ad esempio, al contesto che è mutato o a noi stessi che siamo cambiati. E purtroppo questo accade molto più spesso di quel che si pensi. Non è un peana alla psicologia, anzi tutt'altro. Come ho scritto nel già citato post Alla ricerca di senso, è difficile trovare qualcuno che possa davvero avere una comprensione del nostro senso di sé e delle nostre strutture di relazioni, e non per colpa di qualcuno, ma perché ci sono molte scuole terapeutiche e molte metodologie, mentre più spesso si trova qualcuno che propone soluzioni pratiche, maggiore efficienza, o motivazione, come ad una macchina si cambiano gli pneumatici per farla andare meglio. Senza dubbio va meglio, ma il rischio è di non vedere cosa c'è che non va.
La comprensione intellettiva prima e quella emotiva poi, sono le due condizioni indispensabili per affrontare con successo un percorso di vero cambiamento interiore.
La Renault ha presentato il suo Suv medio: bello e ben figurante, nei rapporti dimensionali ricorda chiaramente la cugina Nissan Qashqai sulla cui piattaforma è stata progettata e prodotta, anzi sembra quasi di riconoscerla, guardandola da varie angolazioni. Sinergie ormai necessarie, che però portano anche scelte progettuali poco convincenti ed obbligate.
La più eclatante è sostanzialmente la scelta del ponte posteriore interconnesso (almeno sulle 4x2), vera pecca del modello, esattamente come la Qashqai. Perfino la nuova Fiat 500X (di segmento inferiore e al pari della cugina Jeep Renegade) monta sospensioni indipendenti al posteriore, così come le Mini Countryman ed altri modelli (per non parlare delle (BMW). La ragione progettuale è semplice: le sospensioni interconnesse costano meno. Ma la dinamica di guida ne risulta inferiore, così come la reazione del retrotreno nel caso di buche o irregolarità della strada. In ogni caso sono pochi quelli che, guidando la vettura, se ne accorgeranno, considerando le ottime doti stradali della cugina franco-nipponica. Le vendite si prospettano sicuramente di grande rilievo, al pari della Qashqai che ha praticamente fondato il mercato delle crossover in Europa.
Quello che mi incuriosisce però è la scelta del nome: Kadjar. Volevano essere sicuri di ricordarsi che era cugina della Qashqai?
Comunque, sarà costruita in Cina. Meditate, detrattori della Fiat di Marchionne...
Per approfondire: Quattroruote: Renault presenta la Kadjar (02/02/2015)
]]>L'immagine è presa dalla Pagina Facebook del bravo psicologo Luca Mazzucchelli (qui il post originale).
Per chi vuole poi c'è sempre la mia paginetta Nosce.org, dove raccolgo spunti e articoli su vari argomenti di psico-qualcosa.
Collegata a questa, c'è anche un piccolo elenco per punti che ho rebloggato recentemente sul mio Tumblr, che penso si adatti bene a questo fine d'anno 2014:
Inspiration for the future
- Hang onto hope
- Believe and be strong
- Smile, and share laughter
- Spread thankfulness
- Live in the moment
- Go after your dreams
- Be grateful for life
- Be all you can be.
"Ma per l'amor del cielo, è proprio inutile tutto quel che non ci procura un immediato guadagno? Hai ritrovato un amico dopo tanto tempo e già lo vedi come una merce"
─ Johann Wolfgang Goethe (Wilhelm Meister, gli anni dell'apprendistato, Adelphi)
Meridiano dello stomaco
Avevo sentito questo termine da un conferenziere famoso, Igor Sibaldi. Mi aveva colpito una frase: "Se a una persona togli un dolore al ginocchio, magari puoi fargli peggio; metti che ha un problema col meridiano dello stomaco e gli sale a livello gastrico". Questa parola fa scattare subito la mia attenzione. Così ho cercato qualche riferimento web, e ho trovato una pagina interessante dove spiega cos'è questo meridiano e quali problemi può causare. Ma dopo aver letto, la biografia della persona che scriveva questo sito mi ha lasciato qualche dubbio.. E anche alcune persone, con cui sono entrato in contatto in quest'ultimo periodo, hanno questa cosa in comune: credono in qualcosa che va oltre le mie conoscenze "medie". Così ho cercato di capirne di più.
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Da alcuni anni si stanno sviluppando tutta una serie di figure professionali - ben consce che la ricerca di senso e di significato è alla base dell'agire umano - che affrontano il problema della motivazione da una prospettiva in qualche modo diversa. Sono spesso psicologi, che spostano il discorso dalla ricerca di senso alla ricerca di una metodologia efficace, a volte breve, a volte più lunga, orientata agli obiettivi e specializzata nei differenti ambiti professionali e aziendali. Alla base di questo filone di pensiero c'è una constatazione, ovvero che il cognitivismo classico (psicologico), che per tanti anni ha accompagnato la ricerca dei "perché" nell'analisi personale, analizzandone la storia, il vissuto emotivo, il contesto famigliare, l'attaccamento e tutto quello che ha caratterizzato il passato della persona, spesso non risolve l'eventuale problema (o i problemi). La persona riesce ad avere un quadro del proprio passato, gli eventuali conflitti interiori, le problematiche cognitive, ma non cambia il loro modello, non si trasforma, non modifica il comportamento. In altre parole, forse capisce e afferra qualcosa in più del proprio Sè (e questo non è certo poco) ma non modifica il suo agire, o non lo modifica abbastanza. Capire non porta automaticamente a cambiare, perché spesso questo processo, seppur necessario, non è sufficiente.
Il processo del cambiamento
In alcuni contesti si è quindi cercato di spostare l'attenzione su obiettivi definiti e caratterizzati da connotati specifici: raggiungibili, realistici, scalabili, e con un'attenzione specifica sul mondo emotivo-relazionale, con l'intento di indirizzare la persona su un cambiamento effettivo, e sui risultati, comprendendo quale passato abbia generato i traumi o i disturbi ma senza conferirgli un tratto bloccante: se ci sono dei blocchi e delle narrazioni, non è importante solo analizzarle e capirle (rischiando spesso anche di giudicarle ed etichettarle), quanto di averne coscienza ma per guardare avanti e gettarseli dietro le spalle.
La ricerca del modello di causa-effetto della psicoterapia cognitivo.comportamentale approfondisce l'aspetto del perché agiamo (in un certo modo). La domanda è: sapere perché si ripete uno stesso comportamento che si ritiene in errore, cambia il comportamento, risolve il problema? Molto spesso no, appunto. E allora si arriva a un nuovo approccio, che tende non tanto a far salire a livello cosciente tutti le motivazioni che hanno portato al problema, ma capirlo e insieme risolverlo il prima possibile affrontando subito concretamente le soluzioni: le soluzioni sono parte del problema.
E il cardine di questa metodologia si basa su due elementi: uno è il fare, inteso come l'agire individuando degli obiettivi precisi, non fermandosi a ragionare sul proprio Sé ma "ribaltando l'esperienza": agire in direzioni nuove e diverse fin da subito affrontando una sfida che può essere piccola o grande. L'altro è il poter essere efficaci: l'efficacia (e in parte l'efficienza, anche se questo termine non mi piace) conta, perché con la metodologia e l'azione si possono superare molte debolezze, limitazioni e soprattutto, trovando un senso dato dall'agire, dal porsi un obiettivo efficace nel proprio contesto esistenziale. Il senso di quello che si fa arriverà nell'agito, non prima. L'azione conferisce sviluppo alla motivazione stessa e alla comprensione e non viceversa, come spesso avviene nella psicoterapia classica. La differenza è nella metodologia, nell'approccio e nella sequenza di affiancamento (che sia coaching, counseling o psicologica).
È interessante notare che è difficile per chi ha una formazione tecnica credere totalmente in questo approccio, sapendo che la motivazione interiore è quella molla fondamentale che ci spinge verso l'azione molto più di quanto l'azione stessa potrà mai ottenere, anche se soddisfacente e perfezionata. Ma questo è anche un limite, che può essere culturale e legato proprio alla visione di una realtà circostante troppo polarizzata, in "bianco e nero".
Chi è appassionato e segue queste metodologie ─ e ne ho conosciuti alcuni in questi anni ─ confida molto in esse perché applicandole con perizia, e mettendole in pratica si è visto che ottenengono risultati. L'approccio forse più famoso è quello della terapia breve strategica, portata in Italia da Giorgio Nardone sulla base delle intuizioni di Paul Watzlawick della Scuola di Palo Alto. In ambito internazionale non è la sola: sono molti i corsi, sulla scia del successo di questo metodo nel mondo anglosassone, che cercano di armonizzarlo con l'ambito europeo ─ costantemente alla ricerca di senso.
Uno dei guru affini a queste scuole di pensiero, che ha per mantra l'efficacia e l'efficienza, è senza dubbio David Allen con il suo il metodo GTD (Getting things done), su cui ha costruito un impero fatto di consulenze, di libri e di talk su TED. Io stesso sono iscritto alla sua newsletter, e sono un suo fan anche solo per l'energia che infonde per cercare di rendere migliore la vita degli altri. Tuttavia, non ho trovato cose che non avessi già in qualche modo individuato io stesso per risolvere i piccoli grandi problemi dell'organizzazione personale (ma io sono un ingegnere, e questo forse influenza la mia ricerca efficientista).
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La crescita personale tra sfide e vaghezza
Parallelamente, a partire da questi nuovi approcci si sono innestate le numerose e variegate scuole di coaching, counseling e mentorship che sono ormai una realtà consolidata, diffusasi in Italia e in Europa e suddivisibili, grossolanamente, tra life coach per lo sviluppo personale, business coaching o coaching aziendale, e sport coaching, interessanti per la molteplicità di competenze coinvolte. Poi ci sono per estensione i "qualcosa-coaching" declinati in varie espressioni (spiritual coaching, mental coaching, ecc.). E qui si entra, a volte, in un campo meno rigoroso o quantomeno sperimentale.
In certi casi bisogna anche fare dei distinguo. La terminologia nata in questo ambito è davvero ricca: si va dalla crescita evolutiva alla PNL (Programmazione neuro linguistica), dalla non meglio definita "neurosemantica" e il neuromarketing allo "yoga della risata", alla famigerata quanto vituperata (e sostanzialmente inesistente) "legge dell'attrazione", passando per il metodo RQI, l'enneagramma e via via per una pletora di neoparole e termini perfino esoterici. In tutti questi percorsi si affronta il "segreto dello star bene", cioè la famosa crescita personale (non farò nomi, basta cercare per trovare centinaia di siti e di corsi sull'argomento). Questa corrente di pensiero ha davvero molti sentieri diversi e alcuni sono piuttosto dubbi: il famoso mantra del pensa positivo, e attirerai energia positiva, spesso accompagnati da qualche sciocchezza sul "mondo quantistico che conferma" (ogni volta che trovate la parola "quantistico" fuori dall'ambito fisico c'è da star sicuri che ci sarà qualche cialtroneria), così come il "siamo tutti uno/siamo una cosa sola con l'universo" e via dicendo. Ma, come dicevo, l'offerta è molto ampia e le espressioni più varie di sprecano, così possiamo perderci. Meglio tentare di inquadrare meglio il fenomeno.
A parte i costi, molto differenti, ci sono alcune caratteristiche in questo ambito:
Concludendo
C'è sicuramente molto marketing in questo approccio, ma anche teorie, convinzioni, paradigmi e approcci innovativi da non sottovalutare. Interessanti sotto diversi punti di vista, alcuni approcci soffrono in alcuni casi di un'efficacia non dimostrata, ma vale la pena approfondire e individuare le professionalità che in questo settore si stanno diffondendo. Spesso, cosa non secondaria, counselor e coach, con una preparazione adeguata, sono anche le prime frontiere per individuare problemi psichici (più o meno importanti) della persona, non riscontrati dall'ambiente famigliare o nel contesto sociale e lavorativo, e da questo eventualmente indirizzarli verso uno specialista che abbia le competenze e gli strumenti per affrontare eventuali psicopatologie...
]]> Lo scopo della vitaOra, il medico legale della storia di poche righe fa, se avete avuto lo stomaco di leggerla fino in fondo, alla fine ha dovuto smettere di lavorare perché aveva effetti devastanti dalla perdita di senso che le infinite storie di omicidi e suicidi avevano generato nella sua narrazione esistenziale. Non ce la faceva più perché nella sua professione non trovava il senso del perché le cose accadevano, spesso orribili e devastanti.
Anche noi, nel nostro piccolo, siamo tutti alla ricerca di senso. Ed ecco il punto: chi ti vende senso, ha vinto. Se cedi alla tentazione di pensare, anche solo per un momento ma seriamente, che non ci sia alcun senso, la spirale del nichilismo potrebbe essere ad un niente da te... e se hai la tendenza, come me e molti, ad analizzare e osservare il mondo per tentare di coglierne il senso, potrebbe essere davvero frustrante accorgersi che apparentemente non c'è.
Volutamente non inserisco elementi religiosi non perché siano fuori luogo, ma perché ci porterebbero lontano, ma chiaramente centrano per chi ha fede.
La propria ineludibile "difettosità"
Ombratile. Mi torna sempre in mente questa parola: così mi descrisse il mio professore di italiano e latino in una relazione ai miei genitori al secondo anno di liceo. Era preoccupato della mia socialità difficile che allora manifestavo. Ma le mie ombre mi hanno sempre accompagnato, dalla pre-adolescenza in poi, e si sono trasformate in ansie che si alternavano a gioie, in vittorie e poi in depressioni, in un andamento altalenante che se vogliamo è piuttosto tipico per me. Quella storia non può essere messa da parte perché con quel materiale grezzo ho costruito la personalità complessa e per certi versi difficile con cui oggi mi trovo a fare i conti. Un lungo percorso di consapevolezza e di senso che ancora oggi è vivo e necessario, e che ausipicabilmente non finirà mai. Questa è la vita, in tutta la sua contraddizione.
Sono arrivato a 40 anni senza mai accorgermi dell'unico grande problema che mettevo da parte sistematicamente: le mie emozioni. Avevo imparato dai miei genitori ad essere "programmato", come tanti della mia generazione, per desiderare delle cose, anche buone, come una famiglia, un lavoro, dei figli, arrivare da qualche parte, ma anche non esibire debolezze, emozioni, fragilità.
Ho prima appreso e poi rifiutato tutto. Più in là, ho poi capito che nella nostra società del benessere c'è un certo conflitto di base: da una parte ottenere il massimo possibile come minimo indispensabile, e dall'altra accettare senza battere ciglio tutto quello che una parte di noi produce e che non deve uscire: e cioè che non siamo macchine, né perfette né tantomeno "funzionanti". Siamo difettosi. Ma riusciamo a fare cose belle, anche meravigliose, nonostante la nostra difettosità. Il come siamo fatti ci aiuta inizialmente a comprendere e quindi a scoprire i nostri schemi, ma poi è nonostante si sia fatti così, sebbene si sia fatti così, o anche grazie al fatto che siamo così che agiamo in un certo modo.
Questo forse va capito meglio, al di là di tante parole sul miglioramento. Perché alla fine è proprio quell'efficientismo del miglioramento personale, quella ricerca del massimalismo che rischia di fare da ostacolo ad un miglioramento consapevole della nostra vita e di farci perdere di vista l'altro. E all'accoglienza verso quelle fragilità, sia nostre sia di chi ci sta affianco, in un mondo che è necessariamente sempre diverso da come uno lo vorrebbe.
-->]]>"Come va?"
1. Icaro: "Uno schianto"
2. Proserpina: "Mi sento giù"
3. Prometeo: "Mi rode..."
4. Teseo: "Finché mi danno corda..."
5. Edipo: "La mamma è contenta"
6. Damocle: "Potrebbe andar peggio"
7. Priapo: "Cazzi miei"
8. Ulisse: "Siamo a cavallo"
9. Omero: "Me la vedo nera"
10. Eraclito: "Va, va..."
11. Parmenide: "Non va"
12. Talete: "Ho l'acqua alla gola"
13. Epimenide: "Mentirei se glielo dicessi"
14. Gorgia: "Mah!"
15. Demostene: "Difficile a dirsi"
16. Pitagora: "Tutto quadra"
17. Ippocrate: "Finché c'è la salute..."
18. Socrate: "Non so"
19. Diogene: "Da cani"
20. Platone: "Idealmente"
21. Aristotele: "Mi sento in forma"
22. Plotino: "Da Dio"
23. Catilina: "Finché dura..."
24. Epicuro: "Di traverso"
25. Muzio Scevola: "Se solo mi dessero una mano..."
26. Attilio Regolo: "Sono in una botte di ferro"
27. Fabio Massimo: "Un momento..."
28. Giulio Cesare: "Sa, si vive per i figli, e poi marzo è il mio mese preferito..."
29. Lucifero: "Come Dio comanda"
30. Giobbe: "Non mi lamento, basta aver pazienza"
31. Geremia: "Sapesse, ora le dico..."
32. Noè: "Guardi che mare..."
33. Onan: "Mi accontento"
34. Mosè: "Facendo le corna..."
35. Cheope: "A me basta un posticino al sole..."
36. Sheherazade: "In breve, ora le dico..."
37. Boezio: "Mi consolo"
38. Carlo Magno: "Francamente bene"
39. Dante: "Sono al settimo cielo"
40. Giovanna d'Arco: "Si suda"
41. San Tommaso: "Tutto sommato bene"
42. Erasmo: "Bene da matti"
43. Colombo: "Si tira avanti"
44. Lucrezia Borgia: "Prima beve qualcosa?"
45. Giordano Bruno: "Infinitamente bene"
46. Lorenzo de' Medici: "Magnificamente"
47. Cartesio: "Bene, penso"
48. Berkeley: "Bene, mi sembra"
49. Hume: "Credo bene"
50. Pascal: "Sa, ho tanti pensieri..."
51. Enrico VIII: "Io bene, è mia moglie che..."
52. Galileo: "Gira bene"
53. Torricelli: "Tra alti e bassi"
54. Pontorno: "In una bella maniera"
55. Desdemona: "Dormo tra due guanciali..."
56. Newton: "Regolarmente"
57. Leibniz: "Non potrebbe andar meglio"
58. Spinoza: "In sostanza, bene"
59. Hobbes: "Tempo da lupi"
60. Vico: "Va e viene"
61. Papin: "Ho la pressione alta"
62. Montgolfier: "Ho la pressione bassa"
63. Franklin: "Mi sento elettrizzato"
64. Robespierre: "Cè da perderci la testa"
65. Marat: "Un bagno"
66. Casanova: "Vengo"
67. Goethe: "C'è poca luce"
68. Beethoven: "Non mi sento bene"
69. Shubert: "Non mi interrompa, per Dio"
70. Novalis: "Un sogno"
71. Leopardi: "Sfotte?"
72. Foscolo: "Dopo morto, meglio"
73. Manzoni: "Grazie a Dio, bene"
74. Sacher-Masoch: "Grazie a Dio, male"
75. Sade: "A me bene"
76. D'Alambert e Diderot: "Non si può dire in due parole"
77. Kant: "Situazione critica"
78. Hegel: "In sintesi, bene"
79. Schopenhauer: "La volontà non manca"
80. Cambronne: "Boccaccia mia..."
81. Marx: "Andrà meglio..."
82. Carlo Alberto: "A carte 48"
83. Paganini: "L'ho già detto"
84. Darwin: "Ci si adatta"
85. Livingstone: "Mi sento un po' perso"
86. Nievo: "Le dirò, da piccolo..."
87. Nietzsche: "Al di là del bene, grazie"
88. Mallarme': "Sono andato in bianco"
89. Proust: "Diamo tempo al tempo"
90. Henry James: "Secondo i punti di vista"
91. Kafka: "Mi sento un verme"
92. Musil: "Così così"
93. Joyce: "Fine yes yes yes"
94. Nobel: "Sono in pieno boom"
95. Larousse: "In poche parole, male"
96. Curie: "Sono raggiante"
97. Dracula: "Sono in vena"
98. Croce: "Non possiamo non dirci in buone condizioni di spirito"
99. Picasso: "Va a periodi"
100. Lenin: "Cosa vuole che faccia?"
101. Hitler: "Forse ho trovato la soluzione"
102. Heisemberg: "Dipende"
103. Pirandello: "Secondo chi?"
104. Sotheby: "D'incanto"
105. Bloch: "Spero bene"
106. Freud: "Dica lei"
107. D'Annunzio: "Va che è un piacere"
108. Popper: "Provi che vado male"
109. Ungaretti: "Bene (a capo) grazie"
110. Fermi: "O la va o la spacca"
111. Camus: "Di peste"
112. Matusalemme: "Tiro a campare"
113. Lazzaro: "Mi sento rivivere"
114. Giuda: "Al bacio"
115. Ponzio Pilato: "Fate voi"
116. San Pietro: "Mi sento un cerchio alla testa"
117. Nerone: "Guardi che luce"
118. Maometto: "Male, vado in montagna"
119. Savonarola: "E' il fumo che mi fa male"
120. Orlando "Scusi, vado di furia"
121. Cyrano: "A naso, bene"
122. Volta: "Più o meno"
123. Pietro Micca: "Non ha letto che è vietato fumare"
124. Jacquard: "Faccio la spola"
125. Malthus: "Cè una ressa..."
126. Bellini: "Secondo la norma"
127. Lumiere: "Attento al treno!"
128. Gandhi: "L'appetito non manca"
129. Agatha Christie: "Indovini"
130. Einstein: "Rispetto a chi?"
131. Stakanov: "Non vedo l'ora che arrivi ferragosto..."
132. Rubbia: "Come fisico, bene"
133. Sig.ra Riello: "Sono stufa!"
134. La Palisse: "Va esattamente nella maniera in cui va"
135. Shakespeare: "Ho un problema: va bene o non va bene?"
136. Alice: "Una meraviglia"
137. Dr. Zap: "Bene, la sai l'ultima?"
138. Verga: "Di malavoglia"
139: Heidegger: "Quante chiacchiere!"
140. Grimm: "Una favola!"
─ Umberto Eco, Il secondo diario minimo
E tu? Come va? ;-)